'Silent Voice', Menzione Speciale al Biografilm: intervista al misterioso regista Reka Valerik
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Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Silent Voice di Reka Valerik: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.
Ha perso le parole. Khavaj, protagonista del documentario Silent Voice, è scappato dalla Cecenia al Belgio quando il fratello ne ha scoperto l’omosessualità. Per lo shock, è diventato muto. Raccontandone l’afonia e lo struggimento emotivo, il regista Reka Valerik ha ricevuto per Silent Voice la menzione Speciale al Biografilm 2021 di Bologna. Ma non troverete molte informazioni su di lui. Reka Valerik è uno pseudonimo che l’autore si è imposto per ragioni di sicurezza. Il documentario prodotto dalla Dublin Films, proiettato tra l'altro all’IDFA e premiato all’Hot Docs Festival, solleva infatti una questione scomoda: il trattamento degli omosessuali in Cecenia. Il regime autoritario di Kadyrov sarebbe responsabile di violente repressioni, sia pure ufficialmente negate: arresti, torture, uccisioni. Nel 2017 Amnesty International lanciava una petizione; ancora qualche mese fa l’LGBT Newtwork puntava il dito contro nuove ondate di arresti e le presunte morti. Tutto questo non c’è in Silent Voice, se non come intuizione della background story; violenza sottopelle, mai esibita. Il regista ha seguito Khavaj in Belgio. Ex lottatore di arti marziali miste (MMA), il giovane ceceno prova ora a rifarsi una vita grazie all’aiuto di un’organizzazione che protegge persone come lui. La madre gli manda messaggi vocali, ma lui non può rispondere. Reka Valerik non fa un documentario di aperta militanza; segue il travaglio e la voglia di ricominciare di Khavaj: la ricerca della voce, la costruzione di una nuova identità, la comunicazione muta con la genitrice. In qualche modo, Khavaj lotta ancora.
IL TRAILER DI SILENT VOICE
PERCHÈ INNAMORARSI DI SILENT VOICE
Quasi costretto a inventarsi un abecedario della solitudine, un alfabeto della sofferenza, Reka Valerik in Silent Voice asseconda l’afonia del proprio protagonista tatuando la macchina da presa sulla pelle di Khavaj, scavando tra i tendini, trascorrendo sulla tensione dei muscoli. Laconico per causa di forza maggiore, il regista non rischia certo di essere retorico: le parole difettano. Meglio così: evitate le glosse dell’autore, c’è solo la vicinanza a Khavaj: nel buio di una camera, nel buio dell’anima. Uno spasmo in primo piano del pomo d’Adamo vale un intero discorso; un vecchio filmato di un’estate al mare è un flashback di impareggiabile eloquenza. Il contesto politico non è urlato, ma le voci di dentro fanno rimbombo.
L’INTERVISTA: REKA VALERIK RACCONTA SILENT VOICE
ANTONIO MAIORINO: il protagonista del tuo film, Khavaj, ha perso la voce per i traumi vissuti. A questo si aggiunge il fatto che, pur avvicinandolo moltissimo coi tuoi close-up, non ne vediamo mai il viso. Come si fa a girare un film senza far sentire o vedere il protagonista?
REKA VALERIK: quando ho iniziato questo film, ho capito subito che si sarebbe trattato di una grande sfida. Il cinema è un’arte audio-visiva ed io non avevo né l’audio né il video del personaggio. Come farlo vivere, allora, e come trasmetterne, le emozioni? Ho cercato di dargli complessità e spessore. Anche senza mostrarne il viso, volevo che ci fosse un incontro col personaggio. Il punto è questo: dobbiamo incontrare lui, non solo la sua storia o quello che gli è successo prima. Voglio che lo spettatore capisca come viva adesso. Ecco perché mi concentro sul suo corpo: rappresenta tutto per lui, era un grande campione di arti marziali miste e l’ha costruito nel tempo. Ora che non ha famiglia, non ha voce, non può fare sport ed è solo, il corpo è ciò che gli rimane. La pelle è il luogo del presente, e su di essa mi concentro.
A.M: una volta ho sentito dire a un famoso critico italiano, Enrico Magrelli, che ci sono interviste in cui l’intervistatore e il regista parlano e il lettore o ascoltatore viene tagliato fuori. Un’esclusione di questo tipo può esserci anche a livello filmico: il regista segue il protagonista, stringe un rapporto con lui, ma lo spettatore si sente escluso. Come hai evitato che succedesse?
R.V: a volte meno mostriamo e meno spieghiamo le cose, più andiamo al cuore delle stesse. Non ho spiegato cosa succeda in Cecenia, non ho parlato delle torture e di tutto il resto. Anche se avessi dato queste informazioni allo spettatore, non necessariamente avrebbe conosciuto meglio Khavaj e capito davvero tutto quello che ha passato. Io stesso non riesco pienamente a capirlo nonostante sia stato con lui tre anni. L’unica cosa che un regista più fare è provare a tradurlo, a far sì che lo spettatore immagini e veda qualcosa attraverso il suo punto di vista. In questo caso, ho tentato di far sì che lo spettatore avesse accesso al corpo del protagonista attraverso il suono e mediante l’immaginazione del non visto, per poi costruire lui stesso la storia. Indubbiamente, questo richiede lavoro a chi guardi Silent Voice; non è un film facile da vedere. È inoltre un film carico di tensione: non c’è una sola scena violenza, ma volevo che la si avvertisse a senza doverla davvero mostrare.
A.M: la tua attenzione al corpo è una costante stilistica oppure si attagliava solo a questo personaggio, trattandosi di un atleta?
R.V: è una caratteristica di questo personaggio. Ci sono voluti due anni per me per costruire una relazione con lui. Non ho da subito portato la macchina da presa, ho solo osservato, ascoltato, l’ho aiutato e sono stato con lui. Non volevo fare un film su di lui, ma con lui, e volevo che anche lui lo volesse. So dunque bene quanto il corpo conti per lui. Usa le mani per picchiare o per toccare, è una persona molto tattile. Tanto più avendo perso la voce, la sua esperienza passa per il linguaggio del corpo. Inoltre, essendo un combattente, volevo farne sentire i muscoli e il respiro. A questo corpo muscoloso, corrisponde però un animo da piccolo ragazzo che soffre, che ha bisogno di sua madre. Non volevo, quindi, solo mostrare il corpo, ma anche sentire il suo dolore e così riflettere, attraverso il cinema, sentiamo e viviamo col nostro stesso corpo.
A.M: c’è una profonda solitudine in Khavaj. Anche il membro dell’organizzazione che aiuta gli omosessuali in esilio a rifarsi una vita, li avverte che, almeno inizialmente, saranno soli. Qual è l’immagine più potente di solitudine che hai dato nel film? Io sono rimasto colpito dallo schermo dello smartphone con i messaggi vocali di WhatsApp a cui Khavaj non poteva rispondere, oppure dal fotogramma con lui seduto a bordo letto e la tv che non funziona.
R.V: per me è il momento in cui riceve un messaggio dalla madre in hotel e subito dopo fa delle flessioni alla parete a testa in giù. Poi, si vede che si avvicina alla finestra; è solo nella stanza, ma si percepisce che fuori c’è una città vibrante di rumori e auto. C’è vita attorno a lui, anche se lui è solitario. Fisicamente è in Belgio, ma emozionalmente vive anche nei propri ricordi: l’estate col fratello, la scena in cui salta dalla scogliera verso l’acqua, sono per lui i più bei momenti del passato e per me le scene più intense del film. Un po’ come dire che gli hanno preso tutto, ma non possono prendergli anche i bei ricordi. Questa sensazione è vissuta da Khavaj con un misto di forza, nel pensiero che nessuno può togliergli quella memoria, ma anche di consapevolezza dell’impossibilità di tornare a quei momenti. È in definitiva un momento di grande malinconia.
A.M: c’è un posto dove Reka sembra vivere una dimensione diversa e più appagante: il planetarium. La contemplazione delle stelle serve forse a rimpicciolire il suo esilio, facendolo sentire parte di qualcosa di più grande?
R.V: per lui il planetarium era una sorta di scappatoia dove poteva osservare le stelle. In Cecenia possiamo vedere financo la Via Lattea, perché tra le montagne non abbiamo inquinamento e il cielo è chiaro. In Belgio è diverso. L’unico posto dove si è sentito bene, calmo ed ha avvertito che l’universo può essere silente è sotto la cupola artificiale del planetarium. In questo senso, per me il planetarium non è solo un posto sicuro, ma anche il posto della speranza. Le stelle nascono, esistono, muoiono e non è la fine del mondo. Anche se Khavaj è in esilio, proprio come dicevi, si sente in un universo più grande. Un universo che non capiremo mai davvero.
A.M: c’è una memoria che si costruisce attraverso la voce della madre. È impressionante pensare che i suoi messaggi vocali siano, in effetti, una sorta di sceneggiatura nella sceneggiatura, una narrazione già in parte pronta. Come ci hai lavorato?
R.V: è così: con i messaggi della madre, ho costruito una narrazione. Anche se per me il protagonista resta Khavaj, la madre è importantissima. Nell’ascoltare i suoi vocali, mi sono profondamente emozionato ed ho deciso di filmare Khavaj. Sapevo di non poter avere accesso a quello che passava per la sua mente, così come ero consapevole che con la madre non aveva dialoghi, ma monologhi, non potendo rispondere. Questo mi ha tuttavia dato l’affascinante sensazione di messaggi nella bottiglia, che si buttano in mare senza sapere se mai qualcuno li riceverà. L’amore della madre è incondizionato, percepiamo che anche lei deve averne passate tante. Così, attorno ai vocali della madre, ho inteso costruire la principale linea narrativa di Silent Voice.
A.M: è per lo più dalla voce della madre che emerge il personaggio del fratello maggiore, Rouslan. Ma bastano frammenti di un racconto in terza persona per farne un personaggio? O resta un fantasma?
R.V: a pensarci bene, in questo film ci sono due personaggi principali: la madre, che non vediamo mai, e il figlio, che nemmeno vediamo in realtà. Sono entrambe come fantasmi l’un per l’altro, due specchi. Uno – la madre – possiamo sentirlo, ma non vederlo; l’altro – Khavaj – possiamo vederlo ma non sentirlo. Il fratello Rouslan, invece, è lontano e non posso svilupparlo con complessità perché non ho accesso a lui. Né posso davvero giudicarlo, o mettere lo spettatore nelle condizioni di farlo, perché non sappiamo come stia vivendo la situazione. Sappiamo che ha chiesto di far uccidere il fratello, ma anche che ne era stato l’allenatore e in qualche modo il protettore. Ora, come può fargli questo? E infatti lo ha lasciato scappare, ma di tutto questo non raccontiamo con esattezza. È una vicenda complessa che non posso costruire su un personaggio al quale non ho mai parlato né che ho mai incontrato. Rouslan lo conosciamo dal punto di vista della madre, che potrebbe però essere completamente sbagliato.
A.M: potrei allora dire la stessa cosa della madre. Non l’hai mai incontrata, la “conosci” e la fai conoscere solo dai messaggi vocali. Quanto pensi di poterla davvero comprendere?
R.V: in effetti, la voce della madre è paragonabile al canto delle sirene. Quando il marinaio lo sente, non sa perché la sirena lo stia chiamando, potrebbe essere pericoloso. Sin dall’inizio mi sono chiesto se i messaggi della madre fossero genuini oppure se stesse cercando in qualche modo di manipolare il figlio, forse per pressioni del governo o della polizia. Non potevo sapere chi o cosa ci fosse dietro questa voce; in realtà, fino alla fine niente è davvero sicuro.
A.M: a proposito di conoscere i personaggi, pensi invece di essere riuscito a penetrare così profondamente nei pensieri di Khavaj da potergli dare una battuta di sceneggiatura, anche per un film di finzione, se potesse recuperare la voce? Quale sarebbe la prima cosa che gli faresti dire?
R.V: Oh my God! Questa è complicata! (Riflette, n.d.R.) Penso che chiederebbe un accendino per fumare. Per tutto il tempo del film voleva fumare, ma ci sarebbe stato troppo fumo nella stanza, che era già scura. Inoltre io non fumo. Una cosa che diceva sempre, e che può essere anche una sua battuta di sceneggiatura, è: “hai un accendino?”, oppure “hai una sigaretta?”, o ancora “vuoi fumare con me?”. Di fatto, non voleva fumare da solo, e come ti ho detto, io non fumo; è stato molto felice del fatto che il direttore della fotografia fumasse.
A.M: ecco, quindi la battuta di sceneggiatura non sarebbe una dichiarazione enfatica, ma un dettaglio che racchiude un mondo: il tentativo di rompere la solitudine fumando con qualcuno. In 50 minuti di documentario, d'altro canto, bisogna giocare molto sulla densità dei dettagli. La vita è più grande, il film è solo un frammento di vita. Cosa immagini per il futuro di Khavaj?
R.V: in questi 50 minuti cerco di ridare a Khavaj ciò che gli è stato tolto: la faccia, la voce. Anche se è la voce del silenzio, è ancora una voce. Voglio condividere questa voce che non ascoltiamo mai con lo spettatore. So, naturalmente, che la vita è più grande di un documentario di una o due ore, ma è come per le stelle. Quando una stella nasce o muore, brilla così tanto da poter generare una stella più grande oppure un buco nero. Per me in questo film bisognava condensare tutto in 50 minuti lasciando aperte queste due possibilità: la rinascita splendente in un nuovo ambiente, oppure la sparizione completa in qualcosa di scuro e immateriale. Alla fine del film spetta al pubblico immaginare il futuro. Io sono solo un osservatore e non posso che dare un ritratto del momento. Non posso cambiare il mondo attorno a me.
A.M: eppure ci sono documentaristi fortemente convinti del fatto che il regista di documentari possa, anzi, debba intervenire attivamente sulla realtà per modificarla.
R.V: un film può cambiare nel senso di porre una questione allo spettatore. Dall’elaborazione di una domanda, può nascere una risposta che cambia qualcosa in piccolo. Le grandi rivoluzioni nascono nell’intimo delle stanze, succedono dentro di te e non con migliaia di persone. In senso astrofisico, la rivoluzione è un moto che in maniera ciclica riporta al punto di partenza. Io sono contrario alle grandi rivoluzioni e a favore di cambiare le cose con lentezza, più umilmente.
A.M: Silent Voice offre una prospettiva molto specifica su Khavaj, ma ho osservato, come succede non di rado nei documentari più empatici, che la stampa internazionale ha sottolineato il potenziale “universale” di questa storia. Quante altre “voci silenti” pensi ci siano nel mondo?
R.V: tante quanti sono gli esseri umani. Tutti abbiamo problemi, cose che non possiamo condividere. Per me il film è sull’amore incondizionato tra figlio e madre, ed e questo a renderlo universale, anziché la gestione dell’esilio, o il fatto che il protagonista fosse stato torturato in quanto gay. Si tratta piuttosto di chiedersi come poter amare qualcuno e capirlo. È una storia d’amore molto triste, senza lieto fine nel futuro prossimo, ma comunque carica di un messaggio di speranza. Sono molto positivo. Penso sempre che il futuro sarà migliore. Oggi abbiamo molte più informazioni rispetto al passato e questo ci dà la sensazione che accadano molte cose negative, ma non è così. Il mondo è più sicuro. Tutto ha una fine, ma l’amore non ce l’ha. Come l’universo, si espande. Il modo in cui la madre di Khavaj accetta infine la condizione del figlio e il modo in cui lui, a sua volta, provi a dire il suo nome, nonostante l’afonia, per costruire una nuova identità, mi fa credere in un futuro migliore per entrambe. Non dico, naturalmente, domani o subito dopo il film; ma sarà così, ne sono sicuro. Sono sicuro che la madre sarà fiera del figlio.
A.M: tu sei una persona positiva, ma per un documentarista è spesso il mondo esterno che costringe a rintracciare elementi di negatività e inserirli in un film. Quale cambiamento avverti nel mondo sul tema dell’omosessualità e in che modo trasfonderai la tua positività nel prossimo film?
R.V: nella mia infanzia non ho mai visto un film con un personaggio gay né ho mai sentito questa parola. Gli stessi protagonisti del film, figlio e madre, non l’hanno sentita, e per la madre di Khavaj non è nemmeno esattamente chiaro cosa voglia dire gay. Vedo però che le cose stanno cambiando. Questa parola ha più visibilità e le cose, sono sicuro, andranno meglio. Mio grande desiderio è che questo sia il mio ultimo film triste. Adesso voglio fare un film positivo; è già in corso di scrittura. È un soggetto particolare, come un lungo party estivo. Si tratta di frammenti di notti di festa filmati in varie città europee e messi insieme: una notte senza fine, un viaggio nella gioia.
A.M: so che Reka Valerika non è il tuo vero nome. Per ragioni di sicurezza, non può essere rivelato.
R.V: non è il mio nome. Reka Valerik vuol dire “fiume della morte”.
A.M: non ti chiederò come ti chiami. Aver condiviso i tuoi pensieri con me e coi nostri lettori è già gratificante. C’è qualcosa che vuoi aggiungere?
R.V: in Silent Voice non ho voluto giudicare nessuno: né la gente che tortura, né lo stesso Khavaj. Il mondo non è bianco o nero, è più complicato. Torno a dire: se avessi dato altre informazioni allo spettatore, se avessi detto che 50 persone sono state uccise o torturate, sarebbe cambiato davvero qualcosa per il pubblico? Io penso di no. È come un fatto statistico: c’è già troppa violenza nella televisione per essere davvero sensibilizzati con queste informazioni. Io volevo solo mostrare un figlio e una madre, più vicini possibile, al di fuori del contesto politico. Quando la tv dà una notizia di persone torturate o uccise, finisce lì; ma dopo che succede? C’è la vita; e io volevo seguire la vita di Khavaj, fare di Silent Voice un film a livello umano.
A.M: e penso, da umile spettatore tra tanti, che tu ci sia riuscito. Grazie Reka.
R.V: grazie a te.
SCHEDA TECNICA DEL FILM
TITOLO: Silent Voice
GENERE: Documentario
PAESE: Belgio
DURATA: 51’
REGIA E SCENEGGIATURA: Reka Valerik
CO-AUTORE: Anaïs Llobet
PRODUZIONE: Dublin Films
CO-PRODUZIONE: Need Productions (Belgio) et Maelstrom Studios (Francia)
FOTOGRAFIA: Arnaud Alberola
PRESA DEL SUONO: Hélène Clerc Denizot
MONTAGGIO: Jeanne Oberson
PRODUTTORE DELEGATO: David Hurst
(immagini: fotogrammi dal film Silent Voice. Fonte: Unifrance. Si ringrazia David Hurst)