Pezzo di legno lanciato contro un collega: è legittimo il licenziamento?
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REGGIO CALABRIA, 10 GIUGNO - Lanciare un grosso oggetto (nel caso de quo un pezzo di legno) contro un collega di lavoro – senza riuscire a colpirlo, peraltro – è comportamento sì censurabile ma non così grave da portare al licenziamento. Tale gesto può essere visto come un mero gesto dimostrativo di protesta. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 14054/2019, depositata il 23 maggio.
Il caso. Il dipendente di un’azienda scagliava “un pezzo di legno – lungo circa 60 centimetri, largo 6 centimetri e spesso 4 centimetri – in direzione di un collega, senza però riuscire a colpirlo”. A provocare l’attimo di follia erano state le “operazioni ad elevata rumorosità” compiute dal lavoratore preso di mira, operazioni che avevano già precedentemente “provocato una reazione di fastidio, accompagnata da espressioni offensive” nell’operaio resosi poi protagonista del lancio. Tutti gli elementi a disposizione facevano sì che la società decideva di licenziare il lavoratore finito sotto accusa per avere provato a colpire il collega. Gli stessi elementi, però, venivano letti diversamente dai giudici di merito, che, tanto in primo che in secondo grado, azzeravano il licenziamento, ritenendo “non sussistente il fatto oggetto di contestazione disciplinare, identificato in un tentativo di lesioni volontarie”, poiché “il lancio del pezzo di legno in direzione della postazione di lavoro del collega, distante oltre dieci metri” non era sufficiente per parlare di “azione oggettivamente idonea a colpire con intensità apprezzabile” la persona presa di mira. Inoltre, sempre secondo i giudici, si poteva piuttosto parlare plausibilmente di “mero gesto dimostrativo di protesta”.
La società soccombente proponeva ricorso per cassazione fondato su cinque motivi di doglianza. Con il primo motivo, la ricorrente censurava la sentenza impugnata per non avere adeguatamente considerato che l'episodio oggetto della contestazione disciplinare e del successivo licenziamento, pur non essendo stato produttivo di danno, rivestiva comunque il carattere della illiceità, la quale ben poteva essere connessa ad un fatto di natura colposa e a qualsiasi condotta contraria alla vita e all'organizzazione aziendale, e per non avere considerato - una volta accertata la illegittimità del comportamento posto in essere dal lavoratore e al fine di escluderne la punibilità con l'adozione della sanzione espulsiva - se esso potesse rientrare nell'ambito di applicazione delle misure conservative previste dal C.C.N.L. di settore, nessuna delle quali peraltro aveva ad oggetto comportamenti contro la persona. Con il secondo motivo, la società censurava la sentenza per avere ritenuto che il datore di lavoro dovesse dimostrare che il lancio del pezzo di legno era diretto a colpire il collega e come tale dimostrazione non fosse stata conseguita, senza, tuttavia, valutare l'impossibilità di una prova attinente alla sfera puramente interna del soggetto agente e la sussistenza di sufficienti indizi per la qualificazione della condotta come ostile. Con il terzo e con il quarto motivo, la società ricorrente si doleva che la Corte d’Appello non si fosse pronunciata sulla possibilità di riqualificare il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Con il quinto motivo, la ricorrente si doleva dell'applicazione della tutela reintegratoria in luogo del pagamento di una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Gli Ermellini ritenevano che la lettura data alla vicenda in questione dai giudici di merito era corretta e, pertanto, la confermavano. Inutile risultava il ricorso proposto dalla società e finalizzato a porre in evidenza la gravità del comportamento tenuto nello stabilimento aziendale dal lavoratore. Sostanzialmente, secondo il Supremo Collegio, doveva applicarsi il principio secondo cui il fatto era sì sussistente ma “privo del carattere di illiceità”, e pertanto non così grave da legittimare il provvedimento sanzionatorio più drastico, cioè il licenziamento. Altresì, respingeva la tesi secondo cui ci si trovava di fronte ad “una condotta contraria alla vita e all’organizzazione aziendale” e, pertanto, al lavoratore, veniva riconosciuto il proprio diritto a tornare di nuovo ad essere operativo nello stabilimento.
Avv. Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express