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ROMA, 19 APRILE - Sono almeno 527 le esecuzioni capitali eseguite nel 2010 da 23 Paesi. È quanto emerge dal rapporto annuale redatto dall’associazione umanitaria Amnesty International. Una cifra inferiore all’anno precedente (nel 2009 si sono avute almeno 714 esecuzioni), che però deve essere considerata “minima”. Molti paesi, infatti, sono piuttosto reticenti a fornire cifre ufficiali. [MORE] Il caso più eclatante è quello della Cina, dove tutte le informazioni sui condannati a morte e sulle condanne eseguite sono coperte dal segreto di stato. Amnesty per questo motivo ha deciso di non inserire i dati cinesi nel computo totale, pur stimando che le condanne eseguite nel 2010 siano state più di un migliaio.
Se si esclude la Cina, i paesi con il più alto numero di esecuzioni sono: Iran (almeno 252), Corea del Nord (almeno 60) Yemen (almeno 53), Stati Uniti (46) e Arabia Saudita (almeno 27). Si evidenzia almeno un dato positivo: nel corso del tempo sono sempre più numerosi i paesi diventati abolizionisti per legge o di fatto. La pena di morte, tuttavia, è ancora prevista in 58 paesi del mondo, anche se in molti di essi non viene applicata.
A livello internazionale si ha sempre di più la consapevolezza dell’importanza dell’abolizione di questa pratica. Nonostante il diritto internazionale non la vieti espressamente, sono state prese alcune importanti iniziative da parte della comunità internazionale. Tra queste, la decisione da parte delle Nazioni Unite di effettuare una moratoria sulla pena di morte, approvata lo scorso dicembre con 109 voti a favore, 41 contrari e 35 astenuti (è la terza moratoria approvata fino a questo momento).
I paesi che vogliono mantenere questa pratica si giustificano sostenendo di applicarla solo per i reati più gravi e dopo lo svolgimento di un giusto processo. Sappiamo, però, che non è sempre così. In molti paesi la pena di morte è prevista per reati finanziari, droga, stregoneria, apostasia, relazioni sessuali tra adulti consenzienti, per un generico “comportamento ostile a Dio” e per una serie di altri reati che certamente non possono essere considerati “gravi”. La posizione di Amnesty è netta: l’associazione si oppone alla pena capitale “in tutti i casi, senza eccezioni, a prescindere dalla natura del reato, dalle caratteristiche del criminale o dal metodo utilizzato dallo stato per uccidere il detenuto”.
Nonostante gli sforzi della comunità internazionale e le pressioni delle associazioni umanitarie, molte condanne a morte sono state eseguite in seguito a processi iniqui, talvolta dopo confessioni estorte sotto tortura. Non mancano casi di condanne inflitte a minorenni oppure a persone con evidenti disturbi psichici. È il caso, ad esempio, di Mohammad A., messo a morte il 10 luglio 2010 in Iran per un reato commesso quando non aveva ancora compiuto 18 anni.
Passando dall’altra parte del globo, negli Stati Uniti, ha fatto scalpore la vicenda di Brandon Rhode: il giorno in cui era prevista la sua esecuzione, il 21 settembre, Rhode tenta il suicidio nella sua cella procurandosi dei tagli sulle braccia e sul collo con una lametta. Viene soccorso, portato in ospedale, rianimato e curato per poi essere ucciso sei giorni dopo, il 27 settembre.