"Our democratic boys"/1. Da dove provengono le armi dei ribelli libici?
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L'AJA, 28 NOVEMBRE 2011 - «Il mio nome è Mu'ammar al-Gaddafi. Considero questo tribunale falso, in quanto chiamato a produrre false giustificazioni per i crimini di guerra commessi dall'Occidente in Libia. I media internazionali hanno iniziato una caccia alle streghe ed io non ero nelle condizioni di rispondere in modo adeguato cosicché è ora inimmaginabile che questa Corte possa giudicarmi». [MORE]<
Ha voluto disconoscere la Corte che lo giudicava – quella internazionale de L'Aja – accusata di essere «un fantoccio nelle mani della Nato». Si è presentato così, in quello che è apparso come un vero e proprio “contro-processo” all'Occidente l'ex leader libico Mu'ammar al-Gaddafi, accusato di genocidio e crimini contro l'umanità, arrestato nei giorni scorsi a Sirte, la sua roccaforte, dopo un rocambolesco scontro a fuoco.
Un arresto che, naturalmente, non è mai avvenuto (le parole della dichiarazione, infatti, sono quelle – reali – usate davanti a quella stessa corte dall'ex presidente serbo Radovan Karadžić). Perché l'uomo che ha guidato la Libia per oltre quarant'anni non subirà alcun processo, né dalla giustizia internazionale né da quella dei cosiddetti “ribelli” libici, che lo scorso 20 ottobre hanno deciso di passare direttamente all'esecuzione della sentenza. Eliminando così, oltre al corpo, anche la possibilità di trovare risposta ai tanti quesiti sorti in questi anni sulla reale figura del leader libico. <
È per questo, dicono molti commentatori, che al-Gaddafi è stato ucciso, indipendentemente dalla rappresentazione mediatica che se n'è voluta dare, dove la mancanza di una statua da abbattere – come successo con Saddam o con Stalin – ha fatto spuntare una pistola dorata, divenuta il simbolo della nuova Libia. È stato ucciso per evitare che il processo de L'Aja potesse trasformarsi in un vero e proprio processo all'Occidente, i cui scheletri nell'armadio dei rapporti con la Libia sono innumerevoli.
Quella che state leggendo è la prima delle tre parti di cui si compone la "contro-inchiesta" sugli avvenimenti della rivolta libica, raccontataci dai media mainstream come una delle tante facce della politica di "esportazione della democrazia" che, nata sotto il governo di George W. Bush, viene portata avanti sia dall'amministrazione Obama sia dalla "cara vecchia Europa" i cui interessi in questa vicenda - come vedremo nitidamente nell'ultima parte di questa "contro-inchiesta" - hanno a che fare con tante cose, in Libia. Ma con la democrazia non c'entrano niente. Attraverso fonti indipendenti - come l'organizzazione Human Right Investigations - o ben accette in Occidente (come nel caso di Amnesty International) analizzeremo principalmente il "chi" ed il "perché" di questa guerra. La prima questione da porre, entrando nello specifico, è capire da dove arrivino le armi con cui i ribelli sono riusciti - non senza l'aiuto degli eserciti occidentali - a rovesciare il regime di al-Gaddafi.
La vecchia politica degli “aiuti umanitari”. «Roma avrebbe inviato in Cirenaica un carico di pistole, mitra e munizioni, spacciando il tutto per “aiuti umanitari”». Così titolava, in un articolo del 4 luglio scorso, il sito PeaceReporter, riprendendo la notizia dall'agenzia di stampa Nena News, secondo la quale nella prima settimana di marzo il nostro paese avrebbe rifornito di armi leggere i ribelli libici. Quelle armi, continua l'articolo, sono state prelevate dai depositi de La Maddalena e Tavolara – in Sardegna – e trasportate, su navi della Marina Militare (come il pattugliatore ITS Libra, arrivata a Benghasi a marzo), in Cirenaica. La formula, naturalmente, è quella ormai consolidata dell'invio di aiuti umanitari, una pratica che i nostri governi usavano già ai tempi dell'”affaire-Somalia” (e della Shifco, Ilaria Alpi e Siad Barre).
Qualche giorno prima – il 29 giugno – lo stesso sito riportava, riprendendola questa volta dal quotidiano francese Le Figaro, una identica notizia per la quale era stata la Francia – attraverso lanci con il paracadute – a rifornire i ribelli di armi come lanciarazzi, fucili d'assalto, mitragliatrici e missili anticarro.
Non potendo usare truppe di terra, quindi, i due paesi hanno ben pensato di adeguarsi ai tempi della guerra moderna e “delocalizzare”, usando un esercito – come ci è stato presentato dai telegiornali – creato direttamente in loco.
Per quanto riguarda le armi inviate dall'Italia – come dimostrato dal sito Globalist.it (articoli che potete leggere qui e qui), al quale vi rimando per un maggiore approfondimento della vicenda – c'è però un piccolo problema tecnico, perché quelle armi non sarebbero dovute esistere. Data la partenza, infatti, quelle armi farebbero parte (il condizionale è d'obbligo in quanto sulla vicenda vige il segreto di Stato) di un carico sequestrato nel 1994 sulla Jadran Express, di proprietà della Croatia Line e battente bandiera maltese, che costituiva l'ultima delle dodici spedizioni di armi che – ai tempi della guerra nell'ex-Jugoslavia – partivano dal porto di Rijeka, in Croazia, per arrivare in Bosnia, in barba all'embargo per un totale di 15.000 tonnellate di armi e 200 milioni di dollari di valore, così come accertato dalla Procura di Torino e dagli uomini della Direzione Investigativa Antimafia dopo il sequestro nelle acque del canale di Otranto. Da qui le armi erano state inviate in Sardegna e stivate a Caverna di Guardia del Moro, località utilizzata come deposito di armi e munizioni dalla nostra Marina e – dal 1972 al 2008 – dagli americani.
Questa, continua il sito in un articolo di Ennio Remondino – sarebbe la seconda spedizione illegale di armamenti che dal Belpaese vanno a rifornire la Libia, dopo un primo carico di armi proveniente dal vecchio arsenale in dotazione a Gladio stoccati a Capo Marrargiu, un tempo sede di addestramento dell'organizzazione.
La domanda, a questo punto, credo sia lecita: quanti altri “aiuti umanitari” di questo tipo sono stati inviati?
Trafficanti d'armi. Proprio quello delle armi è, peraltro, uno degli mercati che più stuzzica gli appetiti occidentali, che dopo i settori del petrolio, del gas e delle infrastrutture vedono in questo uno dei tanti modi per ammortizzare la crisi economica che sta investendo la cara vecchia Europa ed i conseguenti tagli alle spese militari. Come scrive Gianandrea Gaiani sul “Sole 24Ore”, infatti, il mercato potenziale è di 200 miliardi di dollari in dieci anni, e se verranno mantenute le promesse del presidente del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) Mustafa Abdel Jalil, saranno «alleati e amici» - cioè più o meno gli stessi che fino a quale mese fa sedevano al tavolo di al-Gaddafi – a spartirsi la torta. «In pole position i francesi con Eads, Dassault, DCN, Thales ed i britannici di Bae System». Ci sarebbe anche l'italiana Finmeccanica, ma bisognerà capire cosa ne sarà dell'azienda una volta passato lo “scandalo”.
(1 - Continua)
Andrea Intonti