"Non lasciarmi", quei cloni che donano tutto tranne il cuore
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NAPOLI, 25 MARZO - L’interno, livido, è quello di un ospedale, in cui una giovane donna stretta nel proprio soprabito guarda con mestizia, dal vetro divisorio, un uomo steso su un lettino operatorio. E, fuori campo, racconta la propria storia. [MORE]
Quello di "Non lasciarmi" (Never let me go) sembrerebbe il prologo del classico british drama, ma ci aspetta un salto nel passato… futuristico. Inghilterra, 1978: la scuola di Heilsham è decisamente particolare. Bambini dalla disciplina impeccabile, un coro amabile, Charlotte Rampling direttrice col polso della situazione. Tutto farebbe pensare alla lontana genesi adolescenziale di un triangolo amoroso protrattosi negli anni (Keira Knightley, Carey Mulligan, Andrew Garfield), ma i conti non tornano. I bambini non hanno genitori ma non sono orfani, i loro cognomi sono kafkianamente ridotti ad un’iniziale. E la cupa atmosfera da collegio dickensiano sembra denaturata dalle emozioni e gravata da un segreto angoscioso. Spiffera tutto una maestra coraggiosa: a mo’ di Hansel e Gretel delle frattaglie, i bambini sono dei cloni cresciuti perché diventino, da adulti, donatori di organi. Fino ad esaurimento scorte (interne).
Dal romanzo di Kazuo Ishiguro (Einaudi, 2005), lo sceneggiatore Alex Garland ha saputo trarre un’abile riduzione per la regia di Mark Romanek, di espressività concentrata e di sintesi narrativa, volgendo la pudica levigatura emotiva della cultura nipponica in una vicenda che racconta con apparente freddezza le inquietudini sotterranee dei protagonisti. La loro natura di “cloni” è resa perfettamente nel film per via di un minimalismo interno, in cui la recitazione pare raggelarsi in riflessi mimici, intonandosi al grigiore della fotografia. Gli stessi salti temporali, di là della funzionalità diegetica, sembrano omertà narrative, ellissi strategiche del non detto a cui non corrisponde un “non sentito”. I cloni hanno un cuore, ma l’emozione è lasciata affiorare con gradualità, sommersa da un profluvio di interrogativi (“chi siamo?”, “abbiamo un’anima?”, “quanto vivremo?”), a cui si accompagnano i dubbi dello spettatore sui confini etici della scienza. Vale la pena risolvere in senso tecnico l’esistenza, con la cura delle malattie, se creatività ed amore tarpati deumanizzano l’umano?
Egregie le interpretazioni dei tre attori, tra cui spicca soprattutto Carey Mulligan, misuratamente sofferta. Come nella buona fantascienza, il futuro torna presente, in una storia d’amore e d’amicizia che strugge il cuore quanto la testa.
ANTONIO MAIORINO