NBA: i Miami si tirano fuori dal Cry-gate
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NBA: i Miami si tirano fuori dal Cry-gate

lunedì 14 marzo, 2011

14 MARZO - Non sarà storico come il Watergate o scandaloso come il Sexgate, eppure nelle ultime settimane l’America sportiva non parla d’altro che del Cry-gate.

Innanzitutto cerchiamo di capire di che cosa si tratta: in breve, dopo un umiliante sconfitta rimediata con i Chicago Bulls, l’allenatore dei Miami Heat, il malcapitato Erik Spoelstra commette l’errore ingenuo ma ugualmente gravissimo di comunicare alla stampa (già di per sé poco tenera con la squadra che avrebbe dovuto fare sfracelli quest’anno e che invece rischia di diventare un costosissimo bluff) che i suoi giocatori hanno talmente a cuore le sorti del team che alcuni di loro piangevano negli spogliatoi per la brutta prova offerta.[MORE]

Imperdonabile leggerezza, per due motivi: primo perché, come accennato, dai big three tutti si aspettavano fatti e di certo non lacrime; secondo perché l’Nba è un mondo machista come pochi, dove non sono ammesse debolezze. Avete presente il campionato di calcio italiano? Femminucce a confronto. Per farsi un’idea, meglio pensare ad una versione più patinata di “Chi non salta bianco è”, film cult sul basket in cui giocatori improvvisati si sfidavano sui campetti di periferia a colpi di insulti e spintoni prima ancora di toccare palla.

Risultato: tra i giornalisti parte la caccia al piagnone del roster Heat, che nel frattempo si trasformano immediatamente nei Miami Weep (=piagnucoloni). E intanto i colleghi delle altre franchigie si tengono cauti nelle loro dichiarazioni, ma non riescono a celare completamente il sorrisino soddisfatto di chi ha appena trovato un nuovo modo con cui provocare gli avversari della Florida.

Il problema più grave per la franchigia rimane però l’incapacità di uscire sul campo da questa crisi nera di risultati: giovedì notte si presenta l’ennesima opportunità di riscatto, all’AmericanAirlines Arena di Miami arrivano i Lakers.

Le due squadre si erano affrontate l’ultima volta la sera di Natale e in quell’occasione avevano stravinto James & co. con conseguente grande incazzatura di Kobe, che per settimane ha mostrato il muso ai suoi compagni (letteralmente, con scene di silenzi punitivi e imbarazzanti in aereo, in allenamento, sempre praticamente). Ma quello era un altro periodo, erano altri Lakers (un po’ appagati forse per i successi ottenuti negli ultimi due anni) e soprattutto erano altri Heat, in striscia vincente e con la sensazione forte di aver trovato la malgama giusta per far convivere fuoriclasse del calibro di Wade e James.

Stavolta invece sono i Lakers che arrivano da un periodo d’oro (otto vittorie nelle ultime otto gare) e Bryant mette subito le cose in chiaro: Kobe – Miami 10-8 ad inizio partita.

Il primo tempo scorre veloce, in equilibrio e con ottime percentuali dal campo per entrambe le squadre; nel secondo invece si abbassano le percentuali, ma rimane invece inalterato l’equilibrio. Non per merito di Lebron (tra l’altro principale sospettato di essere il piagnone del Cry-gate), letteralmente narcotizzato dalla marcatura di Artest. Chi si prende la squadra in mano invece è Wade, che mette in piedi un duello mozzafiato con Kobe, difensivo prima ancora che offensivo.

A due minuti dalla sirena finale, Bryant impatta sull’88-88 con una bomba da 10 metri; ma trenta secondi dopo Wade gli ruba la palla e lancia il contropiede: è la giocata decisiva, perché i Lakers non segnano più. Finisce 94-88.

Recentemente i Miami avevano peccato proprio nella capacità di chiudere le partite punto a punto, essenzialmente per le incertezze su chi dovesse essere il closer, ossia su quale giocatore dovesse prendere l’ultimo tiro: ci aveva provato un paio di volte James, ma con pessimi risultati. Evidentemente Wade ha voluto ribadire che affidarsi a lui può essere ancora la scelta vincente: d’altra parte, lui lo ha già vinto un titolo, nel 2005, quando sotto per 0-2 nella finalissima con i Dallas, tutti davano gli Heat già per spacciati; ed invece fu lo stesso Dwyane, in evidente stato di grazia, a trascinare i compagni alla più miracolosa delle rimonte (quella serie finì infatti 4-2).

Al di là del singolo protagonista, probabilmente la cura migliore per i Miami sarebbe un coach vincente (che ha già vinto), col carattere e il curriculum per andare da un tipo come James e dire: da adesso in poi parlo io, decido io, e tu ti limiti ad obbedire. Ma di personaggi del genere ce ne sono solo due attualmente in giro per la lega: uno è il maestro zen Phil Jackson, ad un passo dalla pensione (questo dovrebbe essere il suo ultimo anno in panchina); l’altro è il suo acerrimo rivale Gregg Popovich, che però non ci pensa minimamente a lasciare il suo giocattolino a San Antonio (soprattutto adesso che si è rimesso a correre). Quindi per ora tocca arrangiarsi con quello che passa il convento.

Per i Lakers nessun dramma in seguito all’inattesa battuta d’arresto: ospiti sabato notte dei caldissimi Dallas Maveriks, hanno ripreso subito la marcia vincente delle ultime settimane. Vittoria importante questa perché saranno proprio queste due squadre a contendersi il secondo posto ad Ovest (per l’accesso ai Playoff), visto che ormai gli Spurs sono irraggiungibili.

Ad Est invece non possono più nascondersi i Bulls di uno straripante Rose, primo indiziato per il titolo di Mvp della stagione: lo stesso presidente dei Chicago, Jerry Reinsdorf, si è lanciato in dichiarazioni bellicose, ritenendo che la sua squadra sia stata allestita e finalmente pronta per vincere almeno quattro anelli.

Di fatto, partiti nell’assoluto silenzio dei pronostici, adesso i Bulls, approfittando dei problemi d’identità dei Miami e di alcuni inaspettati passi falsi dei Boston, sono ad un passo dal primo posto. Principale artefice di questo capolavoro l’allenatore Tom Thibodeau, ex guru della difesa proprio dei Celtics, molto apprezzato anche da un tifoso specialissimo dei Tori di Chicago: tale Barack Obama, sì, proprio lui, il presidentissimo.

Intanto un traguardo già è stato raggiunto da Rose & co.: dopo tredici anni, i Bulls tornano ad aggiudicarsi la Central Division. Ed è quanto meno propiziatorio che proprio la settimana scorsa si festeggiava a Chicago il ventennale del primo titolo conquistato da M.J. e da quella perfetta macchina da guerra.
 

 


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