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LOS ANGELES, 22 MARZO - C’era una volta una squadra apatica e in crisi di risultati; c’era una volta un gruppo di giocatori appagati per i recenti successi; c’era una volta un Kobe Bryant furioso che lanciava sguardi di rabbia e non degnava di uno sorriso conciliatorio i suoi compagni…
C’era una volta, ma adesso non c’è più.
La boa del cambiamento? L’All Star weekend, decisamente.
Uscendo da quest’appuntamento (tra l’altro disputato in casa), i losangelini si sono svegliati dall’abulico letargo che li aveva contraddistinti durante tutta la prima parte della stagione: lo hanno fatto con una striscia vincente impressionante, dodici vittorie nelle ultime tredici giocate.[MORE]
Ma al di là dei risultati, sono le prestazioni a rimettere di diritto i campioni in carica in corso per l’anello 2011: un ritrovato spirito di sacrificio che ha coinvolto tutta la squadra.
Artest, messosi alle spalle il rischio trade, è tornato ad essere il difensore che snerva la stella avversaria di turno: il giocatore tutto follia e sregolatezza che si rifiuta categoricamente di visionare i filmati per studiare gli attaccanti che dovrà marcare in partita, perché convinto di conoscere già tutto quello che c’è da sapere.
Ottimo materiale per un degno ospedale psichiatrico, se non fosse che puntualmente, vedendolo improvvisare in campo, la sua presunzione difensiva diventi immediatamente giustificabile. Ed una buona difesa spesso gli genera fiducia anche in attacco, con esiti altrettanto imprevedibili, ma comunque decisivi per la presenza che garantisce ai compagni.
Fisher, El Presidente (come lo chiamano nello spogliatoio), è il vero collante di questa squadra: 36 anni e non sentirli. Ogni anno gli addetti ai lavori si interrogano su che utilità possa avere un giocatore ormai arrivato al capolinea della sua carriera cestistica, troppo lento per correre dietro alle point guard funamboliche della nuova generazione: eppure puntualmente Derek smentisce i suoi detrattori, compensando la minore velocità di gambe rispetto ai suoi rivali ventenni con una straripante saggezza, che svilisce l’avversario; tante piccole cose che messe insieme nel’arco di un’intera partita creano una ragnatela di mosse azzeccate, che giungono sempre nel momento più opportuno e che quando si tirano le somme risultano spesso decisive.
Bynum sta vivendo il miglior momento della sua stagione: il ginocchio ballerino (che lo aveva costretto a stare fuori per un lungo periodo ad inizio campionato) migliora, tanto da supportarlo anche nello scontro fra titani contro Howard. Il duello fra i centri destinati a dominare l’Nba per i prossimi dieci anni (magari a maglie invertite, in un futuro non troppo lontano) sembra una gara delle stoppate: i due colossi non difettano in testosterone, ma semmai è alla casella maturità dove hanno ancora tanto da imparare.
Odom è il playmaker occulto dei Lakers: entra dalla panchina, ma non è un panchinaro; tutt’altro, è l’uomo decisivo, chiamato nei momenti difficili per dare la svolta o nei momenti favorevoli per creare il solco.
A proposito di panchina, rimane l’unico punto interrogativo di questa squadra: i vari Brown, Blake, Barnes, saranno in grado di dare un contributo importante durante i play-off, quando ogni pallone diventerà un macigno?
E poi ci sarebbe un certo catalano, tale Paul Gasol, l’unico giocatore fra quelli allenati da Phil Jackson in grado di rispedire al mittente le complesse manovre psicologiche con cui il guru della panchina si diletta a dominare le menti delle sue ignare cavie: tanto per intenderci sulla disarmante superiorità cerebrale dello spagnolo rispetto alla media; una qualità non comune che gli consente di governare il gioco sul campo a suo piacimento, sempre che ne abbia voglia.
Last but not least, il travagliato rapporto maestro-discepolo fra Bryant e il già citato maestro zen. Incalzato da un intervistatore, una volta Jackson rispose che la questione non era se a lui piacesse o meno il gioco di Kobe… Riformulando la risposta, sarebbe: “No!”
Forse è questa la principale differenza col legame che invece aveva instaurato con Jordan: eppure gli anelli sono arrivati anche con Kobe. A maggior ragione, i due ultimi titoli vinti hanno dell’incredibile, se si conseidera la malgama raggiunta (a dispetto del difficile inizio), basata su un rispetto professionale reciproco, che ad esempio porta lo stesso Phil a dichiararsi incredulo per le cifre di Bryant, tenuto conto dei suoi mille infortuni cronici, non dichiarati.
Ai radicati problemi alle ginocchia, al gomito destro e ad almeno tre o quattro dita delle mani, la settimana scorsa Kobe rischiava di incrementare la sua collezione con un serio infortunio alla caviglia: contro i Dallas infatti aveva rimediato una terribile distorsione ricadendo male dopo un tiro in sospensione. Dieci minuti di panico in tutta Los Angeles, ma alla fine l’uomo indistruttibile torna addirittura in campo per veder vincere il proprio team.
Nelle partite successive continua a trotterellare per non forzare la caviglia, ma arriva sempre prima o poi un quarto in cui, accecato dalla trance agonistica, si dimentica di tutti gli acciacchi e padroneggia sul parquet: così vengono sconfitti anche gli Orlando ed un’altra vittoria importante giunge contro i Portland, senza lo squalificato Bynum.
Quello che spaventa maggiormente le avversarie è la compattezza raggiunta dai Lakers, adesso talmente sicuri dei propri mezzi da sopperire a qualche assenza imprevista: d’altra parte i gialloviola sono in grado di sfoggiare una difesa talmente intensa che se fosse anche costante sarebbe per distacco la migliore della Lega; ciononostante gli improvvisi lapsus difensivi vengono comunque ammortizzati dall’ineguagliabile potenziale offensivo.
E così, col record di 50-20, LA si aggiudica la Pacific Division e minaccia di fare la voce grossa anche nella post-season.
Ma intanto ad Ovest, con le prime posizioni già più o meno designate, l’interesse è tutto proiettato sull’ottavo posto: a contendersi l’ultima piazza disponibile per i play-off, Memphis, Jazz, Suns e Rockets, con i primi leggermente favoriti grazie al contributo di uno straordinario Zach Randolph (poco pubblicizzato dalla stampa, per il suo carattere poco malleabile).
Tutt’altra storia invece ad Est, dove al contrario Indiana e Charlotte sembrano addirittura fare a gara per restare fuori dai play-off, in modo da preparare al meglio (anche economicamente) la prossima stagione. Questione di punti di vista…