Mons. Vincenzo Bertolone "Meglio un patrono che i padrini
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La riflessione domenicale del presidente della Cec, Mons. Vincenzo Bertolone. "meglio un patrono che i padrini. Prendere le distanze da mafia e corruzione con Rosario Livatino"
CATANZARO, 20 SETT - Farsi "compari" di battesimo e di cresima era uno dei passaggi obbligati della mafia tradizionale, anche quella che nelle ultime decadi del Novecento diede vita a ben due guerre di mafia, di cui il magistrato Rosario Angelo Livatino fu vittima sacrificale eccellente e innocente. Usare i sacramenti cristiani per ostentare potere e imporre la legge di vita o di morte sui picciotti arruolati è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio, perché ne profanano il nome di Padre, sostituendolo con il potere di "padrini" mafiosi. Lo ricordano bene le parole del documento di Abu Dhabi: “Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente. Chiedo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco”.
Mentre capi in testa e padrini strumentalizzavano il nome di Dio, in Sicilia un magistrato, Rosario Angelo Livatino, si era consacrato al suo nome, col motto "Sub tutela Dei". Solo Dio è la sua scorta e la sua tutela, in un territorio caldo per assassini e rapine, con circa duecento morti – sul finire degli anni Ottanta ed in avanti - tra le file di Cosa nostra, delle nuove Stidde, i rami staccatisi da Cosa nostra per ottenere più potere. Un magistrato assai produttivo, Livatino, nella seconda parte degli anni Ottanta, come riconosce una relazione del CSM. Senza lasciarsi intimidire o piegare, neppure da quella parte criminale dei compaesani di Canicattì tra i quali c'era chi ne spiava ogni movimento, persino le quotidiane visite in chiesa, per trovare il momento adatto per metterlo a tacere e, con lui, mettere il bavaglio a ogni verace testimonianza cristiana.
Lo chiamavano “scimunito” e “bigotto”, ma solo perché ne odiavano il rigore morale, la perfetta applicazione dei codici, la coerenza cristiana, per cui mentre condannava giustamente i reati, pregava per l'anima dei morti ammazzati, aiutava discretamente le famiglie di chi usciva dal carcere, non disperava mai delle possibilità di redenzione dei mafiosi più incalliti. Il termine dialettale santocchio, usato dai mafiosi per apostrofarlo, qualificava Livatino in modo nettamente dispregiativo, evidentemente per la sua notoria vita di fede e di preghiera, e comprova che l’odio alla fede del giudice circolava negli ambienti di Cosa nostra, quindi ben al di fuori dei circoli più ristretti delle Stidde di Palma di Montechiaro e di Canicattì, che concretamente realizzeranno le ultime fasi dell’omicidio. Nell’aria dei diversi ambienti mafiosi del territorio, insomma, si andava progressivamente consolidando un odio generalizzato, un vero e proprio sentimento negativo comune verso l’inflessibile magistrato Livatino, come riferisce in sede canonica uno dei committenti finali dell’assassinio: “Ma già nell’aria ad Agrigento si costruiva questo sentimento negativo verso di lui perché era intransigente”.
Sapevano tutto di lui, unico figlio di una coppia cristiana che, dopo averne pianto la morte atroce, fu ricevuta nella curia di Agrigento dal santo papa Giovanni Paolo II, che di lì a poco avrebbe detto parole di fuoco nella Valle dei Templi. Accordi internazionali tra mafie siciliane ed europee, killer reclutati in parte dal "parcheggio" tedesco, armi da guerra, perfino accordi politici per dare un salvacondotto ai killer del commando che lo aspettava di prima mattina sulla strada statale porta da Canicattì al Tribunale di Agrigento, dove Livatino avrebbe completato il collegio giudicante: le mafie usano ogni mezzo, anche trame oscure, connivenze e corruzione, pur di vincere.
Si era confessato qualche giorno prima, il giudice ragazzino, che sapeva di essere nel mirino di Cosa nostra e degli Stiddari, alcuni dei quali picciotti più giovani di lui. Dopo lo speronamento della sua Fiesta amaranto, il giudice percorse neppure cento metri lungo la scarpata, raggiunto da un killer che sfrontatamente e senza casco gli sparò il colpo di grazia. "Picciotti, che cosa vi ho fatto?", domandò prima che il suo viso da Gesù bambino, come lo definì un suo amico, fosse deturpato dal proiettile. Erano le parole di un profeta morente, che dava voce alla lamentazione di un giusto che sapeva di non meritare quella morte ingiusta. Parole che gridavano contro gli Erodi del nostro tempo, quelli che, non guardando in faccia all’innocenza, arruolano perfino gli adolescenti per farli diventare killer spietati in missioni di morte. Una vergogna non soltanto della Sicilia, ma dell’umanità. Il loro delirio di potere sarà annientato dalla fragilità e debolezza dei piccoli.
Hai fatto molto, caro Rosario, per la Sicilia e il mondo. Hai fatto molto anche per quei picciotti di morte. Alla zizzania criminale fatta di padrini, compari, corrotti, omertosi e capi, hai opposto una figura che potrà ben fungere da patrona per magistrati, operatori della giustizia e giovani che vogliono coltivare e custodire il buon grano del padrone della messe.
+ Vincenzo Bertolone S.d.P.,
Arcivescovo di Catanzaro Squillace - Postulatore della Causa