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Questo pomeriggio non mi scappi, sono dalle tue parti, dai vediamoci dove vuoi tu, ti aspetto -.
Ricevo questa telefonata da un’amica che non vedo da anni. So che ultimamente mi cercava, che mi mandava i saluti, che voleva assolutamente incontrarmi, ed io l’avrei richiamata di certo.
Ma trovarmela lì, vicino casa mia, così distante da casa sua, non l’avrei mai creduto possibile.
Due anni fa mi sono trasferita per lavoro e l’ho persa di vista.
Vera, di quindici anni più grande di me, una donna dolce, insicura, troppo insicura, con un sorriso che sembrava un gemito.
L’avevo lasciata che stava molto male, una depressione galoppante e che non l’abbandonava da anni e che purtroppo era peggiorata.[MORE]
Ci siamo conosciute nell’ambito lavorativo: lei era un tecnico del settore informatico e gestiva i computer dell’azienda.
Abbiamo subito familiarizzato. Vera era una persona cortese e quando andavo da lei per chiedere supporto, mi aiutava senza riserve.
Ogni giorno, appena arrivavo, mi cercava e mi chiedeva sempre se poteva parlare un poco con me.
Ogni volta si preoccupava del fatto che mi disturbasse ed io, sempre la rassicuravo che no, per me era un piacere ascoltarla.
Arrivava col caffè ed io lo bevevo solo per cortesia: non le ho mai confessato che di prima mattina mi piace solo il cappuccino.
Vera era troppo carina nei modi, una donna cortese ed educata, con un’aria un poco retrò.
Mi raccontava del marito, dei figli, quei deliziosissimi ragazzi che ho conosciuto in seguito, della sua casa, della sua vita.
Mi domandavo perché nonostante tutte le cose belle che mi diceva, l’osservarla mi creava un senso di amarezza, perché mi si stringeva il cuore ogni mattina quando le osservavo i suoi occhi color carbone, troppo neri, senza quella luce splendida che rende splendide le donne.
Mi riempiva costantemente di complimenti.
Per lei ero bella, elegante, raffinata…non continuo perché parlo di me, ma insomma lei mi vedeva perfetta.
E mi sembrava (anzi era), esagerata. Inoltre dopo i complimenti nei miei confronti, giungeva puntuale la denigrazione della sua persona.
Si criticava aspramente, non le piaceva nulla di lei. Non solo fisicamente, ma anche in tutto il resto: lei non capiva niente, lei era sufficientemente intelligente e poco capace.
Si paragonava a me e ne usciva soddisfatta nella sconfitta.
Vera era una donna la cui qualità migliore non era certo la bellezza: era abbastanza abbondante, vestiva come una suora laica e non aveva alcun vezzo femminile. Non si truccava neanche un poco. Solo i capelli erano sempre al loro posto: neri, lucidi, belli, proprio belli.
Ma ad un certo punto non potei più tollerare che parlasse di se stessa in quella maniera, anche perché per me Vera era deliziosa. Così come era.
Non potevo ricambiare i suoi complimenti come avrei voluto, ma un giorno le dissi di smetterla di piangersi addosso. Le elencai tutte le cose gradevoli che trovavo in lei e le dissi che forse avrebbe dovuto iniziare una dieta.
Lei mi rispose che soffriva di depressione, che al momento stava meglio, ma temeva di ricadere nel tunnel della malattia e di essere di peso al marito ed ai figli.
Credo che parlare della sua depressione fosse la cosa più difficile che avesse mai fatto. Lei lo viveva come un peccato mortale.
Insomma, andò a finire che Vera pian piano rialzò un poco il capo, cominciò a desiderare di pensare un minimo a se stessa.
Mi stupì: iniziò una dieta e dimagrì veramente.
La sua bellezza, nascosta dal grasso diffuso, emerse come un fiore tra i fili d’erba. Il suo volto divenne bello, si scolpirono gli zigomi alti e gli occhi di brace sembravano dominare il volto.
Cominciò ad usare un filo di trucco, ad indossare vestiti più giovanili e, talvolta, il suo triste sorriso, finalmente scopriva i denti.
Insomma, anche data l’età, non era certo donna da far girare gli uomini, ma gradevole lo era divenuta di certo.
Un giorno mi disse che da ragazza amava dipingere. Fu così che la convinsi ad iscriversi a un corso di pittura.
Divenne entusiasta come una bambina. Mi raccontava tutto, le tecniche imparate, la miscela dei colori, le nuove amicizie…insomma Vera cominciava a ritagliarsi degli spazi che la gratificavano alquanto.
Vera era piacevole ed io la chiamavo sempre più spesso ad aiutarmi: perché anche nel suo campo era competente.
All’uscita dal lavoro, molto spesso l’aspettava il marito, un uomo dal faccione bonario, sorridente.
Ci salutavamo, lui mi dava la mano ed ogni volta sembrava che me la volesse staccare. Mai conosciuto un uomo con quella presa!
Poi metteva un braccio avvolgente sulle spalle di Vera, ed i due si incamminavano assieme.
Li incontravo spesso a passeggiare, Vera mi diceva che camminare l’aiutava.
Semberebbe una storia carina a lieto fine, lo pensai anch’io per vario tempo, finché un giorno Vera non mi chiamò disperata.
Mi disse che aveva bisogno di aiuto.
-Flo, tu mi puoi aiutare, tu ti occupi delle donne che subiscono violenza…-
-Vera, che stai dicendo, dove sei…-
La mia amica era disfatta, distrutta, amareggiata.
Era andata via di casa, si era rifugiata presso un Istituto religioso e mi raccontava tra le lacrime di violenze e soprusi psicologici e fisici.
Corsi da lei: si vergognava, anni di silenzio, di dolore represso, tutto ormai veniva alla luce.
Mi raccontò gli abusi, nel chiuso dell’alcova. Mi raccontò di come era sempre riuscita a nascondere il suo dramma, anche ai figli. Quei meravigliosi figli che non capivano perché lei ora si comportasse così e che la giudicavano per la sua depressione.
I suoi begli occhi di brace erano due drammatiche fessure.
Ogni volta che oggi incontro una donna, per prima cosa osservo lo sguardo. E se riconosco gli occhi di Vera, intuisco tutto prima che lei parli.
Comunque quel giorno lei mi chiese di aiutarla, di seguirla in tutto l’iter che avrebbe dovuto intraprendere. Contattai immediatamente un avvocato e feci ciò che bisognava fare.
Telefonai ai figli per verificare la situazione in casa.
Appena il tempo di organizzare le cose, con la morte nel cuore e il terrore che la mia amica divenisse di nuovo preda della depressione.
Due giorni dopo, inaspettatamente, Vera mi chiamò, dicendomi di dimenticare tutto quello che mi aveva confessato, di non parlarne ad alcuno, perchè aveva deciso di ritornare a casa.
Non mi diede neanche il tempo di replicare.
Si assentò dal lavoro per circa due settimane e, quando tornò, la ritrovai come l’avevo lasciata prima del dramma.
Vera non veniva più spesso a portarmi il caffè, sembrava si vergognasse a rimanere sola con me.
Una mattina cercai l’occasione per dirle che accettavo la sua decisione, ma che non doveva assolutamente permettere la minima violenza contro la sua persona. Le dissi che doveva imparare a dire :no.
Un ‘no’ secco, netto, senza intrusioni.
Ma lei mi guardò dritta negli occhi e con voce sicura mi disse non voleva parlare di ciò che era accaduto.
Si sentì un poco più a suo agio con me quando si rese conto che avrei rispettato la sua volontà.
Come non potevo comprendere che sperava di salvare almeno i figli da questa schifezza?
Ed aveva scelto a modo suo: sacrificandosi.
Il marito, tutti i giorni, la veniva a prendere a scuola, io lo salutavo, ma non gli offrivo più la mano.
Lui abbracciava la moglie e i due si allontanavano insieme.
Quell’abbraccio mi apparve per quello che era: una stretta mortale.
Un giorno Vera entrò nel mio ufficio, si sedette, mi porse il caffè e mi disse che era mi confermò che era a casa per amore dei figli. Non voleva distruggere la famiglia.
Le volli ancora più bene: ancora una volta sacrificava se stessa ed io non ero per nulla contenta.
Non potevo che accettare la sua volontà, lei non voleva intromissioni di sorta.
Dopo le vacanze estive tornai al lavoro, ma Vera non c’era, mi dissero che stava male, molto male.
Una morsa mi stringeva il cuore: io sola conoscevo le ragioni vere della sua depressione.
Nel frattempo ebbi una nuova proposta di lavoro e mi trasferii.
Prima di partire, Vera mi cercò, voleva salutarmi e dirmi quanto mi aveva voluto bene.
Io la vidi e mi spaventai: ingrassata, i suoi capelli neri erano di un arancione orripilante, sragionava. Mi disse che la vita non aveva più senso per lei, niente più la interessava, nulla di nulla.
Mi disse che voleva farla finita.
Prima di partire, con la morte nel cuore l’affidai a delle amiche comuni, ma ero amareggiata, perché avevo visto che la malattia la stava inghiottendo.
Quest’inverno i miei antichi colleghi mi hanno avvisato della morte improvvisa del marito di Vera.
Ho tanto pensato a lei, ma ero lontana e non riuscivo a farle le condoglianze.
Fino ad oggi.
Sono andata ad incontrare Vera, preoccupatissima ma contenta di vederla. Ha fatto un bel viaggetto per incontrarmi, sono stupita, sapendo che lei non ama allontanarsi da casa.
Quando l’ho vista quasi non ho creduto ai miei occhi: Vera è in splendida forma, un bel vestito da signora a modo, i suoi bei capelli con la piega appena fatta, il volto dalla pelle curata.
E soprattutto, Vera sorride e il suo sorriso è aperto.
Ci sediamo a prendere un aperitivo che non arriva mai, ci osserviamo, Vera mi dice cose bellissime, io altrettanto.
Non si vergogna più a guardarmi in faccia.
Mi racconta dei suoi figli che si sono sposati, del nipotino in arrivo, della sua attività alla Caritas, in parrocchia, in un gruppo di preghiera.
Ma soprattutto, mi parla di lei, della speranza ritrovata, della quiete, della serenità delle piccole cose.
Non le esce una parola di odio contro l’uomo che l’ha violata per tanti anni.
Vera è una gran donna. Ora sta bene,
E ricomincia a vivere.
Ricomincia ad assaporare la bellezza.
Sorseggiamo il nostro aperitivo e ci raccontiamo cose carine.
E Vera ride, ride di cuore.
Fonte mammecoraggio