Magistrati coraggiosi
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Magistrati coraggiosi

domenica 30 dicembre, 2012

ROMA, 30 DICEMBRE 2012 - (Approfondimento a cura di Andrea Leccese“Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi”. Queste le parole pronunciate da Pericle - nel 461 a. C. - nel suo discorso agli ateniesi, proseguendo: “Noi ad Atene facciamo così”. In Italia, no. Qui, nel XXI secolo, non facciamo così. Nel nostro Paese, insomma, i magistrati che fanno il proprio dovere hanno la colpa di essere “politicizzati”. In un contesto in cui, da decenni, i pm vengono tacciati di tramare insidie contro gli “eletti dal popolo”, di certo non poteva essere risparmiato il pm Antonio Ingroia.

Nonostante le suddette illazioni, nel 2011, pur prevedendo le polemiche che avrebbero potuto investirlo, Ingroia offre agli italiani un fulgido esempio di magistrato senza macchia e senza paura, decidendo di partecipare al Congresso del Pdci e facendo un duro discorso che risuonò come una filippica contro i nemici della Costituzione.

Disse che un magistrato deve essere imparziale, ma ciò non implica che debba restare indifferente se qualcuno vuole distruggere quella Carta.

Disse che lui, avendo giurato sulla Costituzione democratica, sa da che parte stare fra chi la difende e chi invece quotidianamente cerca di calpestarla.

Aggiunse che questo è un periodo estremamente delicato, in cui la Costituzione è sotto assedio e che lui intende difenderla fino in fondo. Anzitutto resistendo ai reiterati continui attacchi alla Magistratura. Ma resistere non basta: bisogna far capire che i magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste.

Per quanto riguarda, in genere, l’opportunità della partecipazione a riunioni politiche, secondo Ingroia, non c’è alcuno scandalo se un magistrato interviene in un congresso di partito. Piuttosto è significativo che i magistrati non da tutti i partiti vengano invitati a parlare di giustizia e di mafia. Piuttosto fa scandalo che certa magistratura frequenti salotti e certe stanze del potere.

E ovviamente, come previsto, piovvero puntuali le critiche e gli attacchi. Per certi difensori di Casta, le “toghe rosse” sono la vera rovina dell’Italia, la cancrena da estirpare. I pubblici ministeri “comunisti” hanno la grave colpa di non permettere loro di fare liberamente i propri porci comodi. E pertanto sarebbe proprio l’ora d’una punizione solenne, con una cosiddetta “riforma della Giustizia”, magari perfettamente conforme al “piano di rinascita democratica” della gloriosa loggia P2.

Quindi si vocifera che taluni insigni giuristi di Palazzo siano alacremente intenti a confezionare una maleodorante “riforma” della giustizia. Insomma, lo scempio è alle porte: si prepara una norma che non permetterà più al pubblico ministero di iniziare l’inchiesta di propria iniziativa, senza un rapporto della polizia giudiziaria. Insomma, se può risultare troppo sgarbato abolire l’obbligatorietà dell’azione penale e cancellare l’indipendenza del pubblico ministero, si sceglie la via indiretta, meno vistosa ma altrettanto efficace, di affidare le indagini alla polizia, diretta dal potere esecutivo. Le prove saranno raccolte dai cervelli polizieschi sotto l’occhio vigile del governo, mentre il magistrato si trasformerà col tempo nell’avvocato dell’accusa. Il tutto senza troppo clamore, con qualche ritocco appena visibile. Se l’art. 109 Cost. lautorità giudiziaria dispone direttamente» della polizia giudiziaria) può sembrare d’intralcio, basta toglierselo dai piedi. [MORE]

A chi giova? Non certo ai poveri cristi, che continueranno ad essere sanzionati con punizioni esemplari. La norma sarà certamente gradita a ricchi, boiardi e confratelli, che già adesso la fanno franca. Piove sempre sul bagnato! Molti secoli fa Plutarco scriveva che le leggi sono come le ragnatele, perché imbrigliano i deboli, ma vengono spezzate dai potenti. La metafora è di sconvolgente attualità.

Si parla di “riforma della Giustizia”, ma la verità la conoscono perfino le pietre: si sa che certi signori sono vittime, purtroppo, d’una devianza assoluta. Per non vedersi emarginati, hanno bisogno di essere legibus soluti, hanno assoluto bisogno di impunità.

Ma torniamo alla polemica su Ingroia. Com’è stato già detto, avendo accolto l’invito al Congresso del Pdci, Ingroia si presenta con questa esternazione: “Un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni, ma io confesso che non mi sento del tutto imparziale. Anzi mi sento partigiano, sono un partigiano della Costituzione”.

Nelle sue parole c’è qualche riflesso dello sfogo viscerale di Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo. Perciò io odio gli indifferenti”.

Nelle sue parole non c’è alcuna contradizione. C’è il magistrato cosciente del suo dovere di giudicare con imparzialità ed indipendenza; e c’è il partigiano della Costituzione: c’è il cittadino per intero. Ciò significa che la sua coscienza non gli permetterebbe di applicare una legge in violazione di quei diritti fondamentali che la Costituzione garantisce. Si tratta di un principio etico proprio di un giudice tetragono: pereat mundus, fiat iustitia.

Nelle sue parole c’è anche quel magistrato che per lunghi anni subisce l’accusa di faziosità politica, accusa tra le più gravi ed infamanti. Ebbene, per la verità non se ne può più.

Non c’è infatti una sola decisione giudiziaria sgradita ai potenti a cui non seguano insulti ed attacchi nei confronti del magistrato di turno. Né mai si sono visti tentativi così reiterati di interferire per legge sui processi.

Si noti che le accuse ai giudici di faziosità politica, o addirittura di perseguire disegni eversivi, minano alla radice la credibilità del sistema giudiziario, e sono un danno gravissimo al Paese e alle istituzioni. I continui interventi legislativi, poi, finalizzati a modificare le procedure ad libitum, hanno trasfigurato il processo penale, rischiando di trasformarlo in un mostro ingestibile.

Di più, all’ipergarantismo selettivo di talune leggi (es. sul falso in bilancio) si oppongono misure fortemente repressive nei confronti della devianza marginale. Con il risultato che le galere sono piene zeppe di poveri diavoli, mentre nelle aule giudiziarie processi per reati gravissimi si concludono con l’indulgenza o con la prescrizione. Insomma vedere scritto che la legge è uguale per tutti sembra proprio una turlupinatura inaccettabile.

Infine guardiamo i giudici di Milano, in particolare, che, impegnati in complesse indagini contro il più insidioso crimine economico, vengono chiamati “comunisti” o “toghe rosse” e sono additati come la vera anomalia dell’Italia. In realtà, tanti magistrati italiani hanno pagato con la vita la loro fedeltà alle istituzioni. Per questo si possono chiamare “toghe rosse”, perché si sono immolati per la difesa della legalità e dei valori della Costituzione.

Andrea Leccese


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