Le storie del cinema, Carocci editore. Intervista a Uva e Zagarrio: il cinema a più voci
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Le storie del cinema, Carocci editore. Intervista a Uva e Zagarrio: il cinema a più voci

domenica 29 novembre, 2020

Non lasciatevi ingannare: Le storie del cinema. Dalle origini al digitale a cura di Christian Uva e Vito Zagarrio, appena uscito per Carocci editore, è molto più di quello che può sembrare. La pluralità delle storie a cui allude il titolo non è affatto la rinuncia a tracciare un percorso storico coerente ed esaustivo; il contrario, piuttosto: il meglio che si possa fare nella condizione postmoderna, ossia, abbracciare la complessità e raccontare la settima arte con una pluralità di voci, di generazioni, di percorsi, di traiettorie. Porsi il confine delle origini e spingersi fino al digitale, sia pure in un volume unico, non vuol dire essere costretti a strizzare un condensato di storie chiudendosi in poco meno di 520 pagine, quanto aprire la sfaccettata vicenda storica – e la mente di chi la segua – a molteplici percorsi teorici e metodologici. E soprattutto: chiamatelo, eccome, un manuale, visto che l’Uva-Zagarrio si candida a diventare un riferimento essenziale dei prossimi anni per lo studio della storia del cinema tra studenti o impegnati amatori; ma non pensiate che il rigore storico-scientifico degli autori, professori ordinari di Roma3, e della loro “squadra” di studiosi nazionali e internazionali, appesantisca il piacere della scoperta, il gusto della lettura. Non a caso, altrettanto piacevole è la conversazione con gli autori, intervistati a proposito delle loro storie: e come non poteva venirne fuori, già nello spazio di una chiacchierata, una stimolante ricognizione dei sentieri del cinema? Christian Uva e Vito Zagarrio raccontano.


ANTONIO MAIORINO: “polvere di storie”: questa è l’espressione suggestiva di Lévi-Strauss nella frase che avete poste in apertura della vostra premessa. C’è anche una citazione di Raymond Queneau che definisce provocatoriamente la storia come “una scienza confusa”. Scegliere immediatamente la via della pluralità, strutturando i capitoli con controstorie e ripartendo i percorsi tra molti autori diversi per estrazione e gusto, era l’unica via percorribile? Questa polifonia è la strategia vincente?

VITO ZAGARRIO: la domanda è complessa. Ci siamo posti il problema di come si possa fare storia del cinema oggi e in generale di come si possa fare storia in un mondo che consente poco la geometria del racconto storico. Non appare più possibile, infatti, una ricostruzione deterministica della storia come una volta, con quella che si chiamava la storia di lunga durata, ossia dalla Preistoria ad oggi con una sorta di percorso di progresso e di miglioramento. Quell’esergo iniziale con le frasi di Queneau e Levi-Strauss di cui parlavi è in realtà un po’ ironico, ma importante per chiedersi se si possa fare storia in questo mondo pieno di schegge, frammenti e spezzettamenti; il mondo di internet, della rete, della molteplicità delle informazioni, di cui è difficile cogliere l’omogeneità. Alla fine però ci siamo risposti di sì, tanto è vero che abbiamo realizzato una storia corredata da contesti storici ricostruiti da storici puri e in cui ogni capitolo è scritto a più mani per conservare la pluralità di voci e metodi. Ci sono storie del cinema italiano in 15 volumi o del cinema internazionale in 12 volumi: pensa quanto sia pericoloso fare una storia in sintesi in un volume! Bisognava dunque mettere le mani avanti nel senso di sottolineare che il nostro è un percorso specifico, ma che ci sono altre passeggiate nei boschi narrativi, come diceva Eco, ossia altre avventure possibili. Il plurale, poi, è un omaggio a Jean-Luc Godard e alle sue Histoires du cinéma. Ci sono infatti molteplici storie del cinema, a partire da un punto di vista americanocentrico o eurocentrico, ma proseguendo anche con storie dell’Asia, dell’America Latina, dell’Europa dell’Est, fino a quelle dei generi, del cibo, della famiglia, delle identità nazionali. Mille sono possibili ed altre mille ne avremmo potute raccontare. Abbiamo però voluto tenere presenti le esigenze degli studenti, perché intento dichiarato è quello di diventare il punto di riferimento per chi studia storia del cinema. Prima si usava il testo di Rondolino, poi di Sadoul, poi il Bordwell e Thompson. Oggi c’è bisogno di qualcosa di diverso e spero che l’Uva-Zagarrio, come si chiamerà un giorno, possa costituire un riferimento essenziale.


ANTONIO MAIORINO: iniziate dalla fine, ossia degli scenari della contemporaneità, per poi procedere, come voi stesso scrivete, à rebours, all’indietro. Scelta controcorrente, o anch’essa in linea coi nostri tempi?

VITO ZAGARRIO: oggi siamo abituati a un racconto all’indietro. Basti pensare, in campo cinematografico, ad un film come Memento di Cristopher Nolan, in cui si parte dall’oggi e si torna all’indietro senza una consecutio lineare. Siamo partiti dai nostri tempi perché volevamo chiederci quale fosse lo stato dell’arte, chiedendoci anche se si possa parlare di cinema e di film, mettendo dunque in discussione queste stesse nozioni in un’epoca di contaminazioni continue del web e della pubblicità. Da qui siamo tornati indietro con un lungo percorso che ci fa poi però tornare di nuovo all’oggi, disegnando quindi una circolarità e non facendo solo dei flashback “anarchici”. C’è pertanto un senso geometrico nel nostro libro, per cui si finisce laddove si era iniziati, nonché riproponendo strutture affini per i capitoli, col complemento dei contesti e delle controstorie. Si è trattato anche di un modo per rispettare la visione che i giovani hanno dell’immaginario contemporaneo.  



ANTONIO MAIORINO: professor Uva, l’idea dei “contesti” premessi ad ogni capitolo, affidati a quelli che il professor Zagarrio chiama “storici puri”, rientra tra le scelte tutt’altro che scontate della vostra opera. Perché, pur essendo storici a vostra volta, avete inseguito questo slittamento interdisciplinare?

CHRISTIAN UVA: sia io che Vito teniamo tantissimo a questo slittamento. Penso che Vito condivida questa necessità interdisciplinare, un’urgenza peraltro condivisa da studiosi di altre discipline. Il cinema è di per sé interdisciplinare, ma anche discipline più antiche e con più lunga storia non possono più prescindere dall’apertura ad altre materie. In tal senso, mi piace segnalare che da quasi dieci anni si porta avanti un progetto insieme a un collega di Roma3, Paolo Mattera – peraltro coinvolto nella stesura del libro – con una rivista intitolata Cinema e Storia, il cui sottotitolo è Rivista di Studi Interdisciplinari. Lo scambio con gli storici per me è sempre stato fondamentale e grazie all’urgenza, condivisa con Vito, di coinvolgere gli studiosi di storia che già si ponevano su un terreno contiguo a quello del cinema, abbiamo realizzato per la prima volta un manuale con un contingente così nutrito di storici di professione: undici, uno per capitolo. Questo slittamento, come l’hai definito, è uno dei punti di forza del nostro manuale.

VITO ZAGARRIO: il nostro manuale è importante perché ambisce a diventare lo strumento di confronto per ragazzi e lettori di confronto. Oggi si usa la parola interfaccia per il gusto delle nuove generazioni. Puntiamo a stimolare una riflessione e non a dire una verità o dare una pappa scodellata. Ci sono molte verità e molte storie possibili nel cinema. Per questo il libro sceglie la complessità, con i suoi capitoli raccontati a quattro mani a volte da persone che non hanno esattamente lo stesso gusto, con i contesti, con le controstorie. Sarà il lettore a farsi la sua storia del cinema. Ormai la propria personale storia del cinema si fa su YouTube con delle ricostruzioni personali. Ognuno si può creare il proprio mashup, la propria sintesi, rimontandosi Psycho o Il gattopardo, ed ogni storia è diversa perché tante sono le storie del cinema possibili. La stessa cosa per gli autori: si può fare una storia del cinema per autori, ma anche per nazioni, per identità o per tematiche, come la storia della donna o le letture psicanalitiche.


ANTONIO MAIORINO: nelle prime battute del vostro libro, non vi siete posti alcun tabù nel citare la pandemia, allineandovi al presente stretto. Vi proponente, inoltre, di arrivare a parlare del digitale. C’è la sensazione che la forte attenzione al contemporaneo vi esponga, inevitabilmente, all’analisi di alcuni fenomeni per i quali probabilmente serve un po’ di distanza di tempo, ancora, prima di “storicizzare”. Cosa lascia in eredità il vostro libro agli studiosi del domani? Quali fenomeni sono ancora troppo vicini, in fase di monitoraggio, prima di poter essere del tutto storicizzati?

CHRISTIAN UVA: domanda da qualche milione di dollari. La risposta più facile sarebbe di ammettere che tutto ciò che riguardi il presente, inteso come gli ultimi dieci o quindici anni, dovrà essere storicizzato e riconsiderato nel prossimo periodo. Va tuttavia osservato che il lasso di tempo necessario per la storicizzazione degli eventi si è sempre più assottigliato e questo ce lo insegnano gli stessi storici. Con una certa lucidità si è in grado di storicizzare stagioni che hanno avuto luogo solo poco tempo prima. Penso agli anni Ottanta e Novanta, che in fondo sono stati già oggetto di storicizzazione tanto nell’ambito della storia in senso stretto quanto nell’ambito del cinema. Ormai già si comincia a studiare persino i primi anni Duemila, come il momento drammatico dell’attentato alle Torri gemelle nella dimensione globale o i fatti di Genova del 2001 nella dimensione nazionale. Torniamo allora al problema della complessità da cui siamo partiti. Cito spesso il lavoro del filosofo Mauro Ceruti intitolato Il tempo della complessità, che rispecchia l’approccio del nostro manuale. Tutto ciò che è materia degli ultimi dieci o quindici anni sarà storicizzato nei prossimi venti anni, ma nel frattempo noi abbiamo cercato di fotografarlo, pandemia compresa. Era fondamentale partire dallo stato dell’arte come diceva Vito, anche in termini di teorie metodologiche e prospettive, per poi effettuare un lungo flashback, perché il presente può essere compreso solo guardando alla Storia, al passato.


ANTONIO MAIORINO: c’è una sezione del vostro libro che s’intitola “Il desiderio di cinema”. Con altro significato, è un’espressione di forte attualità. Nel vostro testo allude soprattutto alla necessità quasi antropologica da parte dell’uomo di creare le immagini come doppio della realtà, al punto che un capitolo a cura di Bertozzi e Rabito osa tracciare un’archeologia del cinema a partire dalla Preistoria, dalla grotta di Chauvet, sorta di sala cinematografica ante litteram. Oggi, invece, parlare di “desiderio di cinema” fa pensare alla chiusura delle sale. Possiamo dire che il desiderio di cinema oggi sia, dunque, soprattutto desiderio di socialità del cinema, di ritrovarsi assieme nello stesso luogo fisico, a dispetto della moltiplicazione delle forme virtuali di fruizione?

CHRISTIAN UVA: è una domanda molto centrata alla luce di quello che stiamo vivendo. Quando abbiamo pensato all’indice in tempi di pre-pandemia, già si affacciava questo titolo per la sezione, ma non potevamo immaginare che la questione potesse risuonare in maniera così forte rispetto ai tempi. Da un lato, letto alla luce di quanto succede in questi mesi, il desiderio di cinema è un desiderio di socialità e di sala, di un ritorno alla madrepatria come scriveva qualche anno fa Francesco Casetti, cioè al rito collettivo della sala cinematografica. È altrettanto vero, però, che la situazione della pandemia, così come accelera tanti altri processi economici e politici, sta fatalmente portando a un’accelerazione di fenomeni che già erano incipienti nell’ambito della fruizione delle immagini, ossia il passaggio ad altri schermi. La novità forte degli anni 2000 è stata la condizione intermediale della moltiplicazione degli schermi, che poi nel libro Ruggero Eugeni riprende con l’espressione di condizione post-mediale. La pandemia ha accelerato la migrazione delle immagini su altri schermi, ma per me non è la morte della sala cinematografica e non c’è nulla di apocalittico; penso solo che rafforzi le altre piattaforme di fruizione che arricchiscono l’esperienza cinematografica senza sminuirla. Credo inoltre che in questo momento molti appassionati di cinema stiano fruendo della possibilità di vedere i festival in streaming con piacere laddove non per tutti normalmente è possibile la partecipazione in presenza. Il fatto di integrare l’esperienza di un festival in presenza con una fruizione a distanza lo ritengo un vantaggio e spero che venga perseguito in futuro, così come lo auspico per i singoli prodotti cinematografici. Accolgo con favore il processo in corso, a patto che si tratti di un’accelerazione controllata, nel senso di mettere a disposizione le necessarie infrastrutture tecnologiche.



ANTONIO MAIORINO: vengo ad alcuni contenuti specifici della vostra opera che mi piacerebbe anticipare ai lettori. C’è una questione che mi sta molto a cuore, da selezionatore di festival di documentari: il cosiddetto cinema del reale. Questa definizione, affrontata nel vostro testo, ha definitivamente abbattuta il confine tra documentario e fiction?

CHRISTIAN UVA: assolutamente. Tra gli esperti di questo ambito, si tratta di un’etichetta che ha decretato ufficialmente l’abbattimento della barriera tra fiction e non fiction. Si conferma anche in questo senso l’idea di una complessità con cui dover fare i conti. Tutto è più mescolato e ibridato di quanto non si sia riconosciuto a una certa data. Ciò pone alla ricerca delle domande più stimolanti, ma rende più complesse le risposte, in quanto rende arduo districarsi in un mare in cui sarebbe stato utile poter creare schematismi, steccati, confini netti. Il cinema del reale è un esempio perfetto di questo discorso.


ANTONIO MAIORINO: in alcuni documentari recenti abbiamo visto anche l’impiego dell’animazione; quello su Malala o Valzer con Bashir, per citare i primi due che mi sovvengono. Questo fa pensare che l’animazione sia sempre più una forma linguistico-espressiva, e non soltanto un “genere”. Il vostro testo è molto sensibile nel mettere sul tavolo anche questa questione.

CHRISTIAN UVA: oggi si parla molto di documentari animati. Anche lì si sta cominciando a comprendere che l’animazione non è un genere secondario e ancillare rispetto al cosiddetto cinema cinema o cinema in live action. È una tecnica e un insieme di forme espressive che ormai pervade anche il cinema dal vero e ci fa rendere conto di quanta importanza l’animazione in sé abbia dal punto di vista storico e teorico. Se avessimo avuto più spazio a disposizione, vi avremmo dedicato ulteriori argomentazioni. Abbiamo comunque cercato di portare avanti un filo rosso che ne ricordi la rilevanza. Anche quello è un terreno su cui si sta cominciando a comprendere che c’è molta più complessità di quanto certe etichettature del passato avessero messo in vista.


ANTONIO MAIORINO: professor Zagarrio, la complessità di generi e forme s’intreccia con la complessità geografica. Prima c’era un quasi-monopolio hollywoodiano, ma già da tempo le storie del cinema non possono rinunciare a considerare le singole cinematografie nazionali. Ciononostante, mi sembra di capire che non abbiate omesso di parlare apertamente di “centralità di Hollywood”. In che senso?

VITO ZAGARRIO: la centralità americana non è quella di una volta, ma c’è ancora. Non c’è, infatti, quella divisione degli Studios che ha fatto grande Hollywood, quanto una centralità che passa per altre cose, come la serialità televisiva o il web e tutto ciò che gira attorno alla produzione dei film. Il mercato globale è ancora basato sul mainstream hollywoodiano. Il tentativo del nostro libro è stato quello di uscire dalla classica contrapposizione tra Hollywood e l’Europa, perché il panorama è molto più complesso. Non a caso abbiamo inserito delle controstorie con percorsi alternativi che parlano di cinema indiano, giapponese, taiwanese, africano, latino-americano: tante storie del cinema, altrettanti percorsi possibili. Ciononostante, hai ragione nel dire che Hollywood è in qualche modo centrale anche per noi. Ti svelo, anzi, che proprio per Carocci sto scrivendo un altro libro che si chiama Le storie americane. Vorrei infatti continuare a lavorare sulle storie americane dall’Hollywood classica fino alla neobarocca post-post-moderna.


ANTONIO MAIORINO: altri territori in fase di rimescolamento sono quelli del blockbuster e del cinema d’autore. Anche la politica di attribuzione dei premi sta cambiando: a Venezia vincono film come La forma dell’acqua di Del Toro e Joker di Phillips, che poi ti ritrovi agli Oscar, dove vincono a loro volta film autoriali come Roma di Cuarón o Parasite di Bong Jon-ho.

VITO ZAGARRIO: per me è sempre stato rimescolato. Quando ero piccolo, uscì Il Padrino e per me era il blockbuster, il nemico, il film capitalista, il film imperialista. Pochi anni dopo cambiai opinione e oggi lo ritengo un film d’autore, se non d’arte. Questa cosa c’è sempre stata nella New Hollywood, ma a ben vedere anche nella Hollywood classica: penso ad Ombre rosse di Ford, penso ai grandi western, a grandi prodotti commerciali, come quelli di un autore non di nicchia quale Alfred Hitchcock, con attori del calibro di Kim Novak, Cary Grant, Ingrid Bergman. Per il grande cinema americano è sempre stato così, nonostante molti prodotti commerciali indubbiamente di scarsa qualità. Ma per fare ancora un altro esempio: pensando a Spielberg, E.T. è pura poesia anche se è un blockbuster, film come Incontri ravvicinati o Lo squalo sono prodotti straordinari, pur essendo destinati a fare soldi. Di cosa parliamo allora, di cinema d’essai o di cinema commerciale? La stessa parola commerciale, in realtà, è tutta da ridiscutere. La dolce vita di Fellini è stato un film commerciale perché ha fatto un sacco di soldi: dobbiamo allora definirlo un film commerciale?



ANTONIO MAIORINO: e la parola “autore”? Nella Nouvelle Vague si parlava di “politica degli autori”. L’espressione è forse inattuale? La storia del cinema per autori è un vicolo cieco?

VITO ZAGARRIO: la parola autore è in crisi e a volte se ne abusa. Oggi si racconta la storia del cinema per prodotti, generi, tipologie e metodologie, piuttosto che per fenomeni autoriali rispetto a registi intesi come artisti. La cosa è molto più complessa soprattutto da quando è esplosa la serialità ed è diventato difficile identificare l’autore. L’autore può essere anche il produttore, lo showrunner o l’attore, più raramente il regista, salvo casi come David Lynch che creano di sana pianta dei mondi cinematografici nelle proprie serie, come ha fatto per Twin Peaks.


ANTONIO MAIORINO: professor Uva, che ruolo si ritaglia l’Italia nella geografia mondiale del cinema? Mi ha colpito che, in controtendenza alle risposte che ho incassato negli ultimi anni da parte dei registi intervistati, voi scriviate di rinascita della commedia. Alcuni autori intervistati negli ultimi anni lamentavano il fatto che le solite commedie italiane rosicchiassero spazio a produzioni più coraggiose e alla rinascita dei generi. Inoltre, commedia all’italiana è una definizione storicamente collocata, ossia una stagione conclusa, oppure è una di quelle etichette metastoriche, modi di fare cinema, riapplicabili in vari periodi?

CHRISTIAN UVA: comincio dall’ultima parte della tua domanda: sì. La commedia all’italiana può essere considerata una stagione cinematografica conclusa, anche se molto lunga, un po’ come per il neorealismo, nel senso di essere scandita dalla propria periodizzazione. In particolare, c’è chi ritiene che nasca con I soliti ignoti di Monicelli e finisca con La terrazza di Scola: un quarto di secolo, un periodo consistente. Penso però anche che la commedia all’italiana sia effettivamente un modo di guardare la realtà e una precisa declinazione stilistica che si è riaffacciata negli ultimi anni con alcuni autori, in primis Paolo Virzì, e ritengo possa tornare a rappresentare un modo di interpretare il mondo che ci circonda, con le debite differenze. Per intenderci, la commedia del boom fotografava gli anni ’50 e l’inizio dei ’60, quindi un periodo completamente diverso dal nostro presente, ma l’atteggiamento può essere oggi lo stesso di quello dei grandi padri della commedia all’italiana.


ANTONIO MAIORINO: e sulla questione della rinascita dei generi nel cinema italiano? È stata frenata dalla produzione di commedie o ne ha ricevuto una qualche propulsione?

CHRISTIAN UVA: per quanto riguarda la commedia italiana contemporanea, è un aspetto che ha monopolizzato produzione e botteghini. Mi verrebbe da dire, pensando agli incassi, vivaddio: meno male ci siano stati alcuni film in grado di risollevare le sorti molto critiche della nostra industria cinematografica. Sarebbe auspicabile pensare che parte di quegli incassi siano rimessi in circolo nella produzione di altre opere, come opere prime o di altri generi. In altre parole, l’auspicio è che incassi importanti possano aiutare a ricostruire una struttura industriale che si era andato sfaldando nel corso degli anni. In questo panorama variegato, c’è certamente anche il ritorno a generi in parte pertinenti alla nostra tradizione, ma non sempre: nel libro citiamo Salvatores che con Il ragazzo invisibile (2014) pratica coraggiosamente il genere dei supereroi su un terreno al di là della nostra tradizione. Per me è una cosa a cui guardare con favore, così come al ritorno al peplum, al gangster movie, al nostro poliziesco, o poliziottesco, e spero che qualcuno lo faccia anche col western. Sono generi che hanno fatto la forza del nostro genere e della nostra industria anche al di là della commedia.



ANTONIO MAIORINO: professor Zagarrio, lei è anche un apprezzato cineasta. In che modo questo ha influenzato il suo punto di vista sulla produzione cinematografica contemporanea, specie in Italia?

VITO ZAGARRIO: questa è un’ottima domanda. Mi sono posto questo problema anche scrivendo in passato della storia del cinema italiano, in particolare il cinema italiano degli anni 90, ho scritto cinema italiano degli anni 90. In quanto studioso e accademico, cerco di fare operare una ricostruzione obiettiva, ma come cineasta non riesco a sparare a zero su un regista italiano perché ne conosco le difficoltà, so quanto di lacrime, sudore e sangue ci sia dietro un prodotto. Nella parte sul cinema italiano che firmiamo io e Christian Uva c’è un’attenzione particolare al cinema italiano, che considero di grande interesse a differenza di quanti lo etichettano come un cinema in crisi: nemo propheta in patria. Per me c’è addirittura una nouvelle vague, una sorta di rinascimento del cinema italiano. Questo deriva dal mio essere cineasta e dal capire quanta fatica s’impieghi a fare cinema e da quanto rispetto ho per i colleghi, anche nel caso di film che non corrispondono esattamente al mio gusto, ma di cui nondimeno percepisco l’importanza che li rende degni di attenzione, rispetto e studio.


ANTONIO MAIORINO: al di là del giudizio sui contenuti e sui fenomeni storici, c’è qualcosa della sua formazione da cineasta che l’ha influenzata nella scrittura del testo, a livello di scansione e struttura?

VITO ZAGARRIO: la mia formazione di regista mi ha influenzato nel montaggio di questo libro, tanto che in alcune presentazioni si è parlato di uso del flashback (si inizia con l’oggi e si fa un lungo percorso a ritroso) oppure di dissolvenze incrociate (le controstorie sono come delle dissolvenze tra una prospettiva e l’altra). La mia esperienza di cineasta è sicuramente confluita nella stesura del libro.  


ANTONIO MAIORINO: due domande conclusive proiettandoci nel futuro. Conoscete la nota frase attribuita, ma non confermata, ai Fratelli Lumière: “il cinema è un’invenzione senza futuro”. Da insegnante di Storia dell’Arte, sono colpito da tutta quella parte del testo che traccia l’archeologia del cinema a partire dalla Preistoria, riferendosi a fenomeni artistici. Professor Uva, potrà mai succedere al cinema la stessa cosa, ossia, quella di essere considerato un giorno “l’archeologia di qualcos’altro”? Oppure la storia delle immagini, ormai, a prescindere dalle innovazioni tecnologiche, si muoverà sempre all’interno di quel recinto che chiamiamo “cinema”?

CHRISTIAN UVA: mi verrebbe da rispondere affermativamente rispetto a quest’ultima opzione. Le immagini in movimento a partire dalle grotte di Chauvet sono cinema. La tecnologia non può far altro che affinare, declinare, moltiplicare le possibilità di fruizione ed anche di produzione dal punto di vista degli apparati, degli strumenti con cui le immagini possano essere prodotte e fruite, ma l’essenza resta la stessa. Nel libro c’è una controstoria storia di Elena Dagrada con un’intervista impossibile ai Lumière e a Méliès, attraverso cui l’autrice vuole evidenziare come la distanza tra questi cineasti, convenzionalmente determinata, in fondo non ci sia mai stata. Il cinema dei Lumière non era pura documentazione e quello di Méliès non era solo cinema di trucchi e di pura fantasia; è tutto molto più complesso e poroso. In fondo, noi continuiamo ancora oggi a parlare di qualcosa che affonda le radici nelle grotte di Chauvet, ma anche solo a voler partire dall’epoca dei Lumière e di Méliès, possiamo parlare di nuove forme in base a tecnologie, produzione e fruizione, ma con la stessa essenza. Mi sento allora di guardare in questa sfera di cristallo pensando che l’oggetto cinema resti lo stesso e tutto intorno ci sia una costellazione di modalità di fruizione e produzione diverse che non ne trasfigurano l’identità di fondo.


ANTONIO MAIORINO: professor Zagarrio, ciò che sicuramente ha futuro è il racconto del cinema. Altri tentativi saranno fatti di narrare la settima arte secondo diverse direzioni, escogitando altre forme del racconto. A lei come piacerebbe reinventare, ancora una volta, questa ostinata pluralità del racconto?

VITO ZAGARRIO: sarebbe bello raccontare una storia sulle influenze reciproche. Penso per esempio a Kurosawa, che si forma sul cinema americano ma poi a sua volta lo influenza; oppure a Leone, che ama il cinema americano e che poi sarà amato dal cinema americano. Una storia del cinema diversa per rimandi ed influenze reciproche, ossia secondo i modelli che tutti gli autori e le cinematografie hanno per influenze politiche e culturali. Il cinema americano, ad esempio, ha avuto influenza non solo su quello italiano, ma anche sul costume e sulla società. Sarebbe una nuova storia del cinema da raccontare in modo diverso, un’altra storia appassionante.


SCHEDA LIBRO



Editore: Carocci
Collana: Manuali universitari
Data uscita: 24/09/2020
Pagine: 516
Formato: brossura
Curatori: Vito Zagarrio, Christian Uva
EAN: 9788829000791


(immagini: in copertina, fotogramma da Le Voyage dans la lune di Georges Méliès; all'interno, fotogrammi da film vari, in particolare, prima immagine: Memento di Christopher Nolan; terza immagine: Il Padrino di Francis Ford Coppola; quarta immagine: Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores. La seconda immagine è un dettaglio della Grotta di Chauvet. Si ringrazia Giancarlo Brioschi)


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