La storia di Federica (adolescente disperata)
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La morte della madre.
La giornata è leggermente ventilata, e il sole appare a tratti, tra le nuvole rade, in tutta la sua luminosità di questa ultima settimana di aprile.
Passeggio lentamente a poca distanza dal liceo, in compagnia del mio fido registratore.
L’aria primaverile che ha preso il posto delle giornate rigide dei mesi scorsi mi dà una sensazione di benessere. Il pensiero della mattinata che mi preparo a trascorrere qui, in piena libertà, mi fa sentire leggera. Osservo con calma i negozianti intenti alle loro attività e, senza darlo a vedere, i ragazzi in procinto di varcare l’ingresso della scuola, riuniti in gruppi più o meno numerosi a chiacchierare con aria apparentemente spensierata.
Mi sento di buon umore, grata alla vita per l’opportunità che mi offre in semplici mattinate come questa, nelle quali esco di casa a godermi la primavera, in cerca di materiale per il mio libro-inchiesta sull’adolescenza.
C’è il tempo per comprare un quotidiano che mi terrà compagnia al tavolino di un bar sotto gli alberi, mentre continuo a tener d’occhio i ragazzi. Mi siedo e ordino una spremuta d’arancia e un dolcetto alle fragole.
Trascorro così circa venti minuti in totale relax, spostando ogni tanto lo sguardo dai titoli del giornale ai gruppi degli studenti, e a un tratto, mentre rifletto sul progetto che mi sono inventata, noto una ragazza alta dallo sguardo espressivo e malinconico, che mi colpisce per la fluente chioma rossa e riccia che le incornicia il viso accuratamente truccato.
Il relax è finito: faccio segno al cameriere e lascio frettolosamente sul tavolo i soldi della consumazione. Infilo la tracolla della borsa e raggiungo a passi rapidi la mia studentessa, stando bene attenta a non perderla di vista.
«Ciao, sono Antonia, sto lavorando a un libro che raccoglie i vostri racconti. Hai una tua storia di cui vorresti parlarmi?».
«Ciao Antonia, volentieri… Immagino che la mia identità non verrà rivelata, ma mi piacerebbe che nel mio racconto ci fosse il mio vero nome: Federica!».
«Promesso, incomincia!»
«Sono Federica, ho sedici anni. Vivo con mio padre e la sua compagna. Mia madre si ammalò di tumore quando io avevo tre anni; la sua malattia ne durò quasi sei, e dunque ho vissuto la mia infanzia con i nonni.
La mia storia di bambina è stata molto triste. Quando frequentavo la scuola materna e vedevo le mamme degli altri bimbi che venivano a prenderli mi sentivo sola e abbandonata; io ero sempre accompagnata da una vicina di casa, aveva un figlio più grande di me che frequentava la stessa scuola.
Mia madre era spesso costretta ad assentarsi per lunghi periodi, e quando era a casa stava quasi sempre a letto. Per questa ragione io provavo nei suoi confronti un sordo rancore; non capivo perché stesse eternamente chiusa in camera e non mi portasse mai a giocare fuori con le amichette, come facevano le altre mamme. Ogni tanto, molto raramente, mi ci portava la nonna materna. La nonna era sempre presente, dormiva spesso a casa nostra, ma molte volte trascurava le mie esigenze per star dietro a mamma, era sempre pronta a correre appena lei pronunciava una parola. In certi momenti sono arrivata anche a invidiarla per come tutti le stavano vicino.
I miei si arrabbiavano molto con me quando non mangiavo tutto quello che c’era nel piatto e mi sgridavano; io lo facevo apposta, per attirare la loro attenzione. Ero convinta di non contare nulla in casa.
Iniziai le elementari senza che la situazione cambiasse, se non in peggio. Mi facevano accompagnare a scuola dalla mamma di Gioia, una mia compagna di classe; papà non poteva, sempre impegnato ad accompagnare la mamma in qualche posto (crescendo ho capito che si trattava di ospedali o studi medici), tanto che non lavorava quasi più. In quel periodo la mia casa era invivibile.
Ormai il mio punto di riferimento era nonna Teresa, e non mi era difficile volerle bene anche se, per far dispetto a tutti, ero molto ribelle anche con lei. Quando nonna era libera, dopo aver accudito la mamma passava il tempo con me raccontandomi storielle o aiutandomi a fare i compiti; in quei momenti mi sentivo amata e protetta.
Per il mio ottavo compleanno papà venne a prendermi a scuola. Io non stavo in me dalla gioia, era la prima volta! Mi attaccai a lui stringendolo forte; lui cercò di prendermi in braccio ma io mi svincolai: avevo vergogna, mi sentivo grande. Papà mi diede affettuosamente un bacio sui capelli, e solo allora lo guardai bene in viso: il suo volto era stanco e triste. Mi abbracciò forte forte e mi disse che mi voleva bene. Conoscevo il mio papà e capii subito che era successo qualcosa di brutto; rimasi muta pensando che si trattasse della mamma. Lo seguii in macchina mentre mi teneva la mano stretta nella sua. Strada facendo, con molta dolcezza, mi informò che nonna Teresa era volata in cielo. Ebbi una reazione di collera:
‘La nonna no!’ gridai ‘era l’unica che mi voleva bene!’.
Ero sconvolta… ‘Non era la nonna che stava male’ pensavo in quel momento ‘è un’ingiustizia’. Ero furibonda con tutti!
Arrivata a casa entrai nella stanza di mia madre; lei prese un fazzoletto da sotto il cuscino e si asciugò gli occhi.
‘Amore, vieni qui’ mi disse con un sorriso triste.
‘Adesso sei contenta?’ le gridai piangendo ‘La nonna è morta per colpa tua!’.
Mi sentii sollevare di peso. Era papà che mi prendeva in braccio per portarmi fuori dalla stanza dove, con calma e dolcezza, mi fece capire quanto sbagliavo. Entrammo di nuovo nella stanza della mamma; lei stava piangendo silenziosamente. Le chiesi scusa.
La mancanza della nonna mi bloccava il respiro, non sapevo che fosse così importante nella mia vita.
‘Ti abituerai alla perdita della nonna?’ chiesi un giorno alla mamma.
‘No, non mi abituerò mai alla sua scomparsa; mi rassegnerò… ma questa è un’altra cosa’.
Dopo alcuni mesi dal lutto che ci aveva colpiti, i miei, per provare a distrarmi, mi iscrissero a un campo estivo organizzato dalla scuola. In quei giorni, effettivamente, mi sentivo più rilassata; partecipavo a tutti i giochi con entusiasmo. Lontana dal grigiore della mia casa mi sentivo più leggera!
A distanza di una settimana vidi arrivare papà; la gioia che, istintivamente, provai nel riabbracciarlo fu offuscata dopo qualche istante da una sensazione di freddo: mi resi conto che doveva essere successo qualcosa di brutto.
‘È morta la mamma?’ gli chiesi, scoppiando contemporaneamente a piangere…
Il ritorno a casa lo ricordo ancora… avvertivo un senso di vuoto, di cui non riuscivo a liberarmi. La scomparsa della nonna e della mamma in così breve tempo mi avevano distrutta. Passavo il tempo chiusa nella mia cameretta a studiare o a guardare la TV; le ore che trascorrevo a scuola erano per me una liberazione. In quella casa tutto mi parlava della mamma e della nonna…
Poi vennero a stare con noi i genitori di papà, nonna Pina e nonno Rocco; li conoscevo poco perché abitavano in Calabria. Ci misi molto tempo per rendermi conto di quanto fossero teneri, il ricordo di nonna Teresa offuscava la loro presenza».
Federica si asciuga le lacrime con le dita, cercando di non sporcarsi col rimmel. Il suo sfogo è stato un fiume in piena, le parole le sono uscite dal cuore.
«Fede… adesso come stai?» le chiedo con dolcezza.
«Adesso sono incasinata per via di un ragazzo e di una mia compagna di scuola».
«Vuoi raccontarmi?».
«Si chiama Silvia ed è una stronza, pensa di essere la più bella della classe e fa la civetta con tutti i ragazzi».
«Anche col tuo?».
«Ernesto non è il mio ragazzo; mi piace e, prima che arrivasse lei, mi faceva il filo!».
«Siete amiche?».
«Quella non ha amiche… Ha solo compagne che davanti le fanno una faccia e dietro un’altra. Tutte la criticano, ma con lei sono false, nessuno vuole inimicarsela. Hanno paura».
«Paura di cosa?» le chiedo incuriosita.
«Silvia ha uno sciame di ragazzi cretini che le girano intorno; quelle poche, finte amiche che ha sperano che lei ne scarti qualcuno per poterselo accaparrare».
«Mi sembra quindi di capire che tu non fai comunella con lei…».
«Vorrei che morisse!» dice sottovoce, con rancore.
«Ma questo è odio!».
«Le persone come lei sono cattive ed egoiste… meritano di fare una brutta fine! Si diverte a uscire con tutti, a far soffrire le sue compagne. Anche i ragazzi, alle spalle, gliene dicono di tutti i colori… La chiamano madame Bovary. Ma in sua presenza si guardano bene dal criticarla, nella speranza che ci scappi un bacio o una toccatina! Ormai tutti conoscono le sue curve, per quanto gli si strofina addosso!
Un giorno abbiamo fatto a botte, nel giardino sotto casa mia; lei ha avuto la peggio ed è corsa piangendo dai genitori; questi a loro volta hanno preso di petto i miei nonni. È successo un casino!
In un primo momento i compagni hanno dato la colpa a lei ma poi, in presenza dei suoi genitori, hanno accusato me. Per fortuna, però, avevo notato, seduta su una panchina, una donna rumena che ogni tanto veniva a casa nostra a fare le pulizie: così, quando è venuta ad aiutare la nonna ho suggerito a papà di chiedere a lei come erano andate realmente le cose. La donna confermò in pieno la mia versione dei fatti, precisando che era stata Silvia ad alzare le mani per prima, facendo la spavalda di fronte al gruppo che aveva fatto cerchio intorno a noi. A quelle parole papà pensò bene di andare dai genitori di Silvia e chiarire.
La mattina in cui mio padre aveva dato appuntamento ai genitori di Silvia davanti alla scuola, a sorpresa, si presentò anche Luna (era questo il nome della rumena). Per primi affrontò i ragazzi, accusandoli di essere stati codardi a negare la verità e di aver così condizionato il papà di Silvia, spingendolo ad importunare i miei nonni. Quando il padre di quella vipera notò che nessuno dei ragazzi presenti aveva avuto il coraggio di contestare la testimonianza della donna, lanciò alla figlia uno sguardo dal quale intuii che per lei sarebbero stati cazzi amari. Poi tese la mano a papà e chiese scusa.
Da quel giorno Luna divenne la mia più cara amica e confidente. Il nostro rapporto finì per coinvolgere anche papà: i nonni vedevano in lei la compagna ideale per il loro figlio, che era rimasto solo.
‘Finalmente un po’ di serenità anche per lui!’ dicevano».
«È lei la compagna di tuo padre, adesso?».
«Si, Luna ha portato veramente la gioia di vivere nella nostra famiglia».
Improvvisamente Federica cambia espressione:
«Lo sai cosa dice adesso Silvia? Che la rumena è una mignotta, ed è per questo che ha dato a suo padre una falsa versione dei fatti!».
Mi accorgo che è in preda alla rabbia, il pensiero di Silvia e del suo spudorato egoismo la turba.
«Federica, tu sei una bella ragazza… Perché competere con lei? Potresti farti un altro giro di amicizie al di fuori della scuola… Potresti adottare il sano principio che, se un ragazzo ti ama, bene… altrimenti non ti merita!».
«Non voglio fargliela passare liscia! Un giorno pagherà per la sua cattiveria!».
Per quanto mi sia riproposta di svolgere la mia inchiesta con distacco, senza farmi troppo coinvolgere emotivamente, un brivido, mio malgrado, mi percorre la schiena. Le sue parole sono come coltellate.
«Ricorda, Fede, il miglior disprezzo è la noncuranza… Ignorala e vivi la tua vita accanto alle persone che ti amano. Abbracciami e poi regala una perla di saggezza alle tue coetanee» le chiedo teneramente.
«Alle ragazze della mia età consiglio di voler bene ai genitori finché sono in vita, perché quando vengono a mancare lasciano nella nostra esistenza il desiderio insanabile di un affetto sincero».
Antonia Caprella