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Roma, 22 luglio 2011 - Quella delle riforme istituzionali è una questione sempreverde nel tavolo di gioco della politica italiana. Alla vigilia delle ferie estive arriva puntuale il disegno di legge governativo sulla modifica della Parte Seconda della Costituzione, quella riservata agli equilibri istituzionali tra i poteri dello Stato. In linea con la migliore tradizione dell’ammuina della marina borbonica, anche a questo giro di boa della legislatura, come già accaduto dopo la prima metà della legislatura del 2001-2006, la maggioranza di governo di Berlusconi apre le danze della riforma dello Stato sebbene le previsioni di riuscita siano pessime. [MORE]
Ancora una volta si annuncia il lancio di un comitato dei saggi che, sulle orme dei “costituenti” di Lorenzago che nel 2003 si riunirono nella baita nel Cadore, dovrà integrare la bozza presentata oggi in Consiglio dei ministri al fine di farne un testo utile per la discussione in parlamento. Oltre al metodo e alle condizioni politiche generali, anche la seconda metà della legislatura 2001-2006 fu caratterizzata da una strisciante crisi di maggioranza determinata in quel momento dai malesseri dell’Udc e di Gianfranco Fini, anche i contenuti sostanziali del ddl costituzionale odierno ricalcano fedelmente il testo bocciato dagli italiani nel referendum costituzionale del giugno 2006.
In un momento in cui lo strumento della consultazione referendaria ha conosciuto un forte rilancio attraverso i quesiti votati a giugno, sembra quanto meno imprudente non considerare il responso delle urne nel 2006. Nella recente esperienza istituzionale si sono tentate varie strade alla riforma costituzionale, dalle commissioni bicamerali Iotti - De Mita a quella D'Alema, ai più semplici disegni di legge di iniziativa parlamentare o governativa. Tutte sono risultate inadeguate: non ulteriormente rinviabile pare la questione di come assicurare al procedimento di revisione della Costituzione un’adeguata copertura e legittimazione popolare, ricordando come la sola Assemblea costituente direttamente eletta dal popolo sia riuscita a fondare un nuovo ordinamento repubblicano.
Proprio le caratteristiche del percorso istituzionale di riforma tracciato dal governo rafforzano il dubbio circa la sua compatibilità con la legittimazione popolare delle riforme costituzionali. In effetti più che a una profonda rivisitazione del patto sociale su cui si reggono le istituzioni repubblicane, si è di fronte al recepimento di alcuni fatti istituzionali che sebbene non codificati fanno già parte del vissuto degli italiani: dal rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio (ridenominato Primo Ministro), in linea con il funzionamento della democrazia dell’alternanza, allo snellimento strutturale e funzionale delle camere, con il dimezzamento del numero dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto in cui le camere duplicano reciprocamente i compiti istituzionali; dall’introduzione del senato federale alla ridefinizione dei criteri di distribuzione dei compiti tra stato e regioni, con l’eliminazione di perversioni istituzionali come il conferimento della materia della produzione e distribuzione nazionale dell’energia. Sono tutti aspetti che traducono in disposizioni normative esigenze ormai consolidate nella società italiana.
Lo sforzo racchiuso nella codificazione degli sviluppi sociali degli ultimi venti anni non è inutile. C’è da chiedersi però se la riforma di una costituzione possa limitarsi a gestire il già esistente, oppure abbia bisogno di tematiche e metodi costituenti profondamente innovativi. La costituzione secondo i classici del pensiero politico è pur sempre un fatto romantico che segna l’esistenza di un anno zero dal quale il popolo si erge per darsi un nuovo ordinamento e nuove regole di convivenza.