La Federal Reserve lascia i tassi invariati: "Troppe incertezze globali". I possibili scenari
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La Federal Reserve lascia i tassi invariati: "Troppe incertezze globali". I possibili scenari

venerdì 18 settembre, 2015

NEW YORK, 18 SETTEMBRE 2015 - Di fronte alle turbolenze che hanno investito le borse cinesi, la Federal Reserve ieri ha deciso di rimandare, secondo alcuni persino nel gennaio del 2016, l'annunciata stretta monetaria e di lasciare i tassi invariati a quel minimo storico tra lo zero e lo 0,25% al quale sono inchiodati ormai dal dicembre 2008. Se la ripresa degli Stati Uniti appare ormai abbastanza solida da reggere un aumento del costo del denaro, salvo un'inflazione ancora ben lontana dall'obiettivo del 2%, a spingere la Fed ad andare con i piedi di piombo è stata la recente fase di volatilità attraversata dai mercati finanziari, in particolare quelli dei paesi emergenti, i più soggetti al rischio di fuga di capitali una volta normalizzata la politica monetaria statunitense. [MORE]


In conferenza stampa Janet Yellen, numero uno dell'istituto di Washington, è stata piuttosto esplicita in merito: "La ripresa ha progredito a sufficienza, ci sono ragioni per alzare i tassi ora e ne abbiamo discusso ma alla luce delle incertezze estere e dell'inflazione più bassa, abbiamo deciso di aspettare. La preoccupazione per la Cina e i mercati emergenti ha portato volatilità sui mercati e, date le significative interconnessioni tra gli Usa e il resto del mondo, la situazione va osservata con attenzione", ha proseguito il presidente della Fed, che ha ribadito come "il primo rialzo dei tassi sarà opportuno una volta che avremo visto ulteriori miglioramenti sul mercato del lavoro e l'inflazione sarà tornata a crescere".


Se l'inflazione resta al palo dopo anni di tassi a livello zero e le esportazioni mostrano qualche segno di fiacchezza dipende infatti in larga parte da fattori esogeni, quali il crollo del prezzo del petrolio e il rafforzamento del dollaro sul mercato dei cambi, fattori che, ha assicurato Yellen, restano comunque "transitori". Inoltre, sebbene il tasso di disoccupazione sia a livelli minimi, il 5,1%, anche dal mercato del lavoro Usa arrivano segnali contraddittori. Il tasso della popolazione attiva è infatti il più basso degli ultimi trent'anni e molti dei lavori creati dopo la crisi sono part time e scarsamente qualificati. Lo scenario che sembra profilarsi è dunque quello evocato nei mesi scorsi da molti osservatori: una stretta monetaria 'dolce' con un primo rialzo entro la fine dell'anno destinato a non essere seguito da un secondo per parecchi mesi.


I tassi di interesse bassi accrescono le disuguaglianze o sostengono la ripresa globale?

Il rischio di una nuova crisi finanziaria non è stato ancora sventato. Secondo alcuni economisti, un rialzo di 0,25 punti percentuali dei tassi di interesse avrebbe potuto innescare una catena di crack obbligazionari. Tutti coloro che detengono azioni come i fondi pensione o le banche con titoli di Stato nel portafoglio rischiano di registrare perdite notevoli perché il rendimento di questi titoli è inversamente proporzionale ai tassi. E non è tutto: numerosi fondi speculativi hanno approfittato dei bassi tassi di interesse per indebitarsi e investire su titoli di Stato più rischiosi alla ricerca di maggiori profitti. Un rialzo dei tassi nei prossimi mesi, spingerebbe gli investitori a liberarsi di queste azioni per ridurre l'indebitamento, innescando il crollo degli stessi titoli e una corsa alle vendite con un effetto domino sull'intero sistema finanziario.


I Paesi emergenti sono i più minacciati. I tassi di interesse più alti rischierebbero di causare un bagno di sangue soprattutto nei Paesi emergenti. Nel 2013 era bastato l'annuncio dell'allora presidente della Fed Ben Bernanke di interrompere il Quantitative Easing perché i capitali fuggissero in massa dal Brasile e dalla Turchia, facendo crollare il valore delle valute dei due Paesi. Un effetto simile si otterrebbe con il rialzo dei tassi: i capitali tornerebbero a riversarsi su titoli più sicuri come quelli europei e statunitensi, scatenando una tempesta monetaria sull'America latina e sull'Asia, con i Paesi emergenti in difficoltà per trovare nuova liquidità e difendere le loro divise.

I tassi di interesse bassi creano bolle speculative e volatilità. Se tornare a una politica monetaria convenzionale è rischioso, anche mantenere i tassi a livelli minimi per un lungo periodo potrebbe ugualmente avere effetti perversi sull'economia. Il rischio è di creare degli squilibri pericolosi nei mercati. Dopo la crisi il bilancio delle Banche centrali si è incredibilmente gonfiato. Quello della Fed, ad esempio, è passato da 900 miliardi di dollari a più di 4.500 miliardi. Queste somme corrispondono alla liquidità iniettata nel sistema per rilanciare l'economia. Finché le istituzioni monetarie non la ritireranno e lasceranno i tassi invariati, gli investitori continueranno a profittare della situazione scommettendo su certe valute, prodotti finanziari e azioni, col rischio di favorire la nascita di bolle speculative e dunque condannare i mercati finanziari alla volatilità.

Il dubbio della Fed. Come ha fatto notare il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, i bassi tassi di interesse sono in parte responsabili dell'aumento delle ineguaglianze nei Paesi sviluppati perché i primi beneficiari sono le banche e i mercati finanziari. Tuttavia grazie a essi le grandi imprese possono finanziarsi a prezzi più bassi e gli Stati che devono pagare interessi minori sul debito pubblico. Di conseguenza i cittadini, se da un lato ottengono una bassa remunerazione dai loro risparmi, dall'altro sono favoriti dall'aumento degli investimenti e dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Ecco perché alla fine ha prevalso la cautela: dopo dieci anni di politica monetaria “non convenzionale” la Fed si trova in una situazione difficile: qualsiasi scelta venga fatta, essa può essere criticata e può innescare turbolenze nell'economia globale.

L'azione dei governi. Una cosa appare tuttavia certa: se negli ultimi anni le Banche centrali hanno preso le redini dell'economia globale, sarebbe necessaria adesso un'assunzione di responsabilità dei governi, come tra l'altro più volte chiesto dal presidente della Bce Mario Draghi, attraverso politiche economiche redistributive per contrastare gli squilibri generati dal Quantitative Easing e riforme strutturali per capitalizzarne i benefici.

Tiziano Rugi


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