Intervista al regista della Bottega Di Steli, associazione artistica partenopea
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Intervista al regista della Bottega Di Steli, associazione artistica partenopea

mercoledì 2 ottobre, 2013

NAPOLI, 2 OTTOBRE 2013- Dopo tanti successi in ambito culturale, incontriamo Stefano Cortellessa, regista e cofondatore della Bottega di Steli, associazione culturale napoletana, operante in ambito artistico, per farci raccontare un po’ di questa nuova avventura e dei tanti riconoscimenti ricevuti durante questo 2013.

Dopo tanto lavoro, finalmente, i primi riconoscimenti "importanti": s'inizia con le proiezioni al PAN, poi l'Ischia Film Festival, ora StreamOff a Roma. E con diverse opere cinematografiche.
Mi sento di affermare, con dispiacere, che, purtroppo, non esiste grande predisposizione critica nei confronti di ciò che non sia “formalmente considerato conosciuto e riconosciuto". E' un po' la prima legge del mediocre, no? “Mi interesso e giudico solo quello che conosco, bene o male non importa, conosco solo ciò che giudico o peggio ciò che conoscono altri e che altri hanno giudicato”. Basta fare il conto di quante persone siano veramente a conoscenza di qualcosa in modo esclusivo per rendersi conto di quello che sto dicendo: nessuno o quasi sa proporre o parlare di qualcosa che altri non conoscono. Tale è la condizione umana e, se verificata e applicata in campo cinematografico, direi che proprio qui si manifesta in tutto il suo "splendore" tragicomico.Ad ogni modo, non credo che un artista necessiti di "riconoscimento" alcuno (ma da chi poi e perché mai?),proprio in quanto “artista”, e questo mi pare un fatto alquanto scontato, ma ciò di cui ha bisogno è senz'altro la diffusione, la cosiddetta “visibilità”, cosa ben diversa, ed è quello che noi stiamo perseguendo con non poche difficoltà. I moderni mezzi di comunicazione (internet e tv) sono l'antitesi per eccellenza della concentrazione, per cui un certo tipo di attività artistica o “post-culturale” non può che avere vita difficile.[MORE]

Il tuo lavoro, finora, si concentra sull’impatto visivo, dove spesso scorre un’inquietudine. Microcosmi e macrocosmi che si confrontano, accentuando quella che è la dimensione metafisica dell’immagine. Come si sta evolvendo il tuo percorso?
Direi che in verità, anche se in progressione, questo percorso sta collassando su se stesso.La produzione dei tre cortometraggi realizzati finora è stata incentrata tutta sulla ricerca del sogno, in senso strettamente visivo, quasi pittorico: evocarne i ritmi, le dinamiche, per sublimare l'immaginazione e rendere tangibile la materia emotiva che ne scaturisce. Reputo che sia un territorio decisamente inesplorato, salvo rare e preziose eccezioni del passato, in cui è stato possibile apprezzare dei risultati concreti.Questo tentativo di ricerca è stato estenuante: il sogno sfugge all'occhio, ma soprattutto all'immaginazione; è inconsistente e, come tale, difficilmente tracciabile. Mi spiego: quando ci svegliamo quasi tutti ricordiamo più o meno un sogno o abbiamo una sensazione o un pensiero visivo che ci permette di ripercorrerlo. Ecco: io non parlo di questo.Io cerco il sogno nell'istante in cui accade e, per trovarlo, occorre svelare la corrispondenza che lega l'immaginazione al ricordo, per poter scavalcare quel tempo che condiziona il passaggio, irreparabile,fra memoria e sogno: è come costruire una torre per andare in alto e questa torre, man mano che sali, perde i pezzi che hai posto affinché potesse portarti su: ti ritrovi in cima, ma sotto non vedi più tutta la costruzione che ti ha permesso di salire. Per questo il sogno sfugge:essere riusciti a capire questo è già di per sé un buon risultato, perché la comprensione di un limite ti espone attivamente nei confronti del limite stesso e, quando hai la visione limpida di ciò che è insuperabile, attraverso di essa, ti rendi, di fatto, creatore dell'impossibile, inteso come impossibilità di compiere e raggiungi almeno un punto di non ritorno.
Parlo di collasso perché la ricerca del sogno, nei nostri lavori, ha prodotto una specie d’involuzione artistica, episodio paradossalmente pregiato se valutiamo il punto di non ritorno come ultimo raggiungimento possibile e forzato dell'obiettivo preposto. Credo che questo processo sia accaduto specialmente in "Uno come in terza fila": lì abbiamo osservato, anche se da lontano, l'impossibile di cui parlo.

Le immagini che presenti colpiscono per la loro enigmaticità. Straniscono e spiazzano lo spettatore, il quale si ritrova, in un certo senso, a combattere tra la realtà che conosce a quella che, invece, gli è mostrata da te, dove l'illusione cinematografica cela un significato altro, in una finzione continua e talvolta esasperata, in cui predomina la ricerca di un'armonia. Come può lo spettatore influenzare l’opera e la sua interpretazione?
È soltanto una sorta di simbolismo di parnassiana memoria, nulla di più. Un codice come un altro, fra i tanti a disposizione, per calamitare l’ispirazione e dedurne il corpo in un’analisi costante e di contrasto fra oggettivo e soggettivo. Un metodo efficace e non a seconda del lavoro che si vuole approntare, ma senz’altro ancora assai moderno per quanto mi riguarda e forse ancora indispensabile se parliamo di ricerca dell’armonia o del sogno. Direi che la “confusione” nasce dal fatto che ci troviamo di fronte ad un livello in più, rispetto ai canonici, e mi riferisco proprio all’idea di illusione cinematografica. Ad un quadro impressionista, per l’appunto, manca la finzione oppure non è una finzione sufficiente in rapporto alle possibilità dei nostri sensi, ad un’opera di video arte no, è questo il punto. Lo spettatore subisce un ulteriore livello invasivo, ben definito, che va a piazzarsi fra oggetto e soggetto e l’aggressione emotiva può essere più rilevante, in taluni casi perfino ossessiva. Credo che la causa di questo sia semplicemente il movimento e l’idea del suono, entrambi molto fisici in questo genere di comunicazione, e, quindi, più facilmente insinuabili all’interno della percezione dell’opera. In una situazione del genere, direi che, se fossi spettatore di me stesso (e per fortuna non lo sono), metaforicamente, proverei a cogliere l’impronta per generare la forma del mio passo, ma mi rendo conto di quanto sia complesso alla luce del discorso appena fatto.

E' chiara la tua intenzione di voler ridefinire l'utilizzo del linguaggio visivo. Il parlare senza dire è un proiettare l'esperienza oltre il consueto (diventato desueto)?
Più che di linguaggio visivo, parlerei di linguaggio della visione, dove per visione intendiamo la manifestazione estetica dell’immaginazione. Uno dei passaggi obbligati di questo linguaggio è senz’altro l’abolizione della parola, certo. La parola intesa come elemento linguistico e l’idea che sia necessario portarla ad un livello diverso per ottenere il risultato auspicato: la parola o il suono come elemento puramente fisico e descrittivo della visione. In sostanza, è il principio di considerare il suono e l’immagine come parti assestanti e dissestanti, a seconda, di questo linguaggio come se non esistesse alcuna differenza fra loro nell’utilizzo ultimo all’interno di una descrizione. È la loro stessa natura che farà la differenza ed è in quella differenza che si sviluppa buona parte del corpo di questo genere di comunicazione.
Bisogna guardare attraverso l’immagine ed il suono, attraversarli con stupore e superare l’idea che siano semplicemente suono e immagine: al contrario, chiudere gli occhi e immaginare qualcosa sarebbe un atto ordinario e fine a se stesso, legittimo quanto basta, ma, per me, inutile, perché non mi interesso dell’ordinario. Caso mai è l’ordinario che, mio malgrado, s’ interessa a me.

Il tuo lavoro possiede un non so che di provocatorio. Sembri suggerire che l'arte possa sensibilizzare le persone a trovare una via d'uscita all'appiattimento mentale di questi tempi.
È possibile, ma se succede è del tutto involontario. Io lavoro per me stesso e quello che provo a fare è frutto di un’esigenza molto personale. Aggiungerei che sicuramente quando l’arte viene rivelata agli altri attraverso un’attività fondata su un certo tipo di onestà intellettuale e soprattutto emotiva, basata sulla ricerca di una dimensione psicologica che definirei come “meraviglia essenziale”, può venirsi a creare un passaggio condiviso, attraverso il quale artista e fruitore convergono, abbastanza eccezionalmente direi, spingendo la propria sensibilità al limite, al di là della mediocrità che riguarda certi soliti “io ho capito” o “io ho sentito” e verso qualcosa che somiglia molto di più ad un “io non ho capito, né sentito eppure sono esistito”, all’interno di un’esperienza artistica apparentemente incomprensibile e per questo in grado di cogliere alcune profondità sopite della propria sensibilità. Il senso è che quando non capisci qualcosa ma qualcosa ti ha emozionato, fai di tutto per capirlo perché hai bisogno che questo qualcosa si verifichi ancora: su questo non ho alcun dubbio. E così inizia un processo di lenta liberazione: inizia a possedere l’intelligenza e non è più l’intelligenza a possedere te. Capire subito significa subire quello che hai capito. Non capire significa affrontare la reale condizione della propria misura cognitiva: il sogno che non capisco o che non ricordo è sempre il sogno più importante … e la voglia di svelarlo finalmente aumenta.


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