"Inchiostro rosso", conversazione con l'autore Giuseppe Petrarca: "Scrivere ci rende liberi"
Cultura e Spettacolo Campania

"Inchiostro rosso", conversazione con l'autore Giuseppe Petrarca: "Scrivere ci rende liberi"

sabato 29 novembre, 2014

A margine della presentazione del romanzo Inchiostro rosso (Pietro Graus Editore) di Giuseppe Petrarca, tenutasi il 23 novembre presso la biblioteca comunale di Nocera Inferiore nell'ambito di un avviatissimo tour che prosegue il 30 novembre a Napoli ed il 5 dicembre a Policoro, abbiamo scambiato alcune impressioni con l'autore. Tra suggestioni letterarie, recensioni dialogate e sguardi al cinema.

Da medici senza frontiere ai confini delle realtà letterarie: quelle immaginate dove, pure, i personaggi, coi propri conflitti e nel proprio guazzabuglio sentimentale, ci ricordano un po’ delle nostre ansie e delle nostre paure. Così Giuseppe Petrarca, il peso d’un cognome imponente e la leggerezza sanamente incosciente dell’esordio, dà alle stampa il medical thriller Inchiostro rosso (Pietro Graus Editore), un intreccio tra legge, medicina e famiglia che si sdipana con l’agilità di un montaggio cinematografico. La sinossi ufficiale, nello stile delle case di distribuzione: [MORE]

Una storia ambientata tra Milano e Zurigo. Gli intrighi delle multinazionali che manipolano cure, farmaci e terapie da un lato, le indagini del commissario Lombardo sull'omicidio di un giovane biologo dall'altro. Inchiostro rosso dell’esordiente Giuseppe Petrarca è un romanzo, un medical thriller, che affronta la drammatica realtà dei traffici e degli affari, spesso loschi, delle case farmaceutiche. Il protagonista è Davide, ventiseienne e perciò nel pieno della vita. La sua esistenza viene devastata da una malattia che lo consuma, fino a costringerlo su di una sedia a rotelle. C’è una sola via di fuga: la lettura. Ed è proprio grazie a quella passione, che Davide contribuirà a risolvere il caso, attorno a cui gira il libro.

Romanzo breve o racconto lungo, come s’amava dire un tempo, se fosse un film sarebbe però più d’un mediometraggio. La densità è soprattutto nell’azione, piuttosto che nei personaggi, la cui tempesta sentimentale è sfiorata nel turbine d’un incalzante succedersi di eventi. Ne deriva una durabilità potenziale, una trasformabilità in fiction che coincide con quanto ci racconta l’autore Giuseppe Petrarca: “lo stanno visionando alcuni registi. Potrebbe diventare un prodotto per lo schermo”. E l’intervista diventa bilaterale. Lui chiede a chi scrive, critico cinematografico, se Inchiostro rosso possa scorrere come un film; poi restituisce il favore e risponde ad alcune domande, a margine dell’evento tenutosi domenica 23 novembre alle 10.30 presso la Biblioteca Comunale di Nocera Inferiore (SA), allorché il libro è stato presentato ad una folta platea, con il Sindaco Manlio Torquato a fare gli onori di casa. Di seguito lo scambio.


G.P: la cosa più bella è stata ricevere dei complimenti da parte di una lettrice che mi ha confessato di non essere riuscita a prender sonno la notte prima di aver finito la lettura del libro. Voleva sapere come andava a finire.

A.M: un punto a favore dell’ipotesi “cinema”. Come scriveva lo sceneggiatore Fabio Bonifacci (Diverso da chi?, Si può fare, Benvenuti al Nord), una storia funziona quando lo spettatore – o il lettore – è spinto a chiedersi: “e poi?”.

G.P: ti chiedo io: “e poi?”. Ossia, pensi che il romanzo possa avere un destino cinematografico?

A.M: come ti dicevo, uno sceneggiatore ed uno scrittore partono da problemi affini. Il primo è quello di far funzionare una storia. Per farlo, hanno bisogno di stratificare i personaggi, di non farne uomini e donne ad una dimensione, piuttosto ispessendoli con la dimensione della paura e con quella del desiderio. Ogni (buon) personaggio ha delle volizioni, degli afflati, vorrebbe qualcosa che non riesce a raggiungere. Pure, vive una inevitabile fragilità: un nervo scoperto che diventa il filo della narrazione, una paura recondita, un timore. Per raggiungere ciò che desidera, se la storia funziona, tende ad esporsi nella sua zona di pericolo, nell’area di rischio, dove la paura si esacerba ed i desiderata diventano sfide avventurose, superamenti dei propri limiti.

G.P: dicevi di Inchiostro rosso che è un romanzo corale, a più voci…

A.M: sì, per cui vien da chiedersi il desiderio e la paura di quale personaggio traccino il solco principale del romanzo. A mio avviso – e sono al secondo punto in comune tra cinema e letteratura – questo avviene con Davide, bloccato sulla sedia a rotelle da una malattia genetica, eppure in grado di contribuire a sbrogliare quella matassa che il Commissario Lombardo, degno erede d’una tradizione di detective italiani che non trapassano “l’onesto burocrate”, lontano dal genio della progenie di Sherlock Holmes, faticherebbe a sciogliere. Ma in questo non c’è il semplice godimento del lettore a seguire i cambi di scena, le dissolvenze interne che rendono così fluido il narrato, i montaggi paralleli per cui da un set si trapassa all’altro per affinità sentimentale, oltre che per ordine temporale. C’è anche l’umanità di un personaggio che contempla la sua immobilità ed ha paura che oltre ad essere fisicamente impossibilitato ad intervenire, soffra di un deficit motorio della logica, del pensare, dello sguardo. Lo sguardo è il tema che unisce il cinema con la letteratura: dove c’è qualcosa da guardare, c’è una macchina da presa, ma prima c’è una penna. C’è un autore che guarda ai propri personaggi, e personaggi che guardano la realtà. Credo che il passo più significativo sia quello in cui Davide, appassionato di gialli, cerca la soluzione al busillis fissando la propria biblioteca, popolata di "abili" eroi: scoraggiato dalla propria paura (d’inadeguatezza, di non saper guardare), mosso dal proprio desiderio – d’investigare, di scrivere. E per scrivere, ha bisogno prima di tutto che siano i suoi occhi a muoverlo. Gli occhi diventano ruote. La ruota, come nella storia dell’umanità, è un progresso, fosse anche la rotella della logica visiva.

G.P: a quale passo alludevi?

A.M: lo riporto alla lettera:

“Davide rifletteva: “Io non sono all’altezza, non ho alcuna esperienza in criminologia, e non saprei minimamente da dove partire”. Fu in quel momento che, disilluso, guardò quella montagna di libri con gli occhi di chi guarda un cumulo di carta inutilizzabile, tradito da migliaia di parole che l’avevano ingannato.

In qualche modo, questo traccia la strada per un’eventuale opera seconda. Credo che se fosse un film, il tuo romanzo sarebbe una fiction d’azione. Sarei curioso, invece, di vederti passare dalla dissolvenza perpetua, cioè dalla rapidità dei fatti, al microscopio dell’anima. Mi viene in mente questa espressione pensando a come il critico letterario Giacomo De Benedetti introdusse “Il romanzo del Novecento”, facendo riferimento alle scoperte di Einstein, a quelle subatomiche di Planck, ai quadri cubisti. Sul macro-racconto – ed il tuo è lineare, pulito – il Novecento ha innestato l’indagine interiore, l’epifania dei dettagli, l’aprirsi dei personaggi “come una scorza”, per dirla con Proust.
Ma in tema d’indagini: certo il tuo è un romanzo che non nasce esattamente col proposito dell'inchiesta approfondita, quanto con quello di appassionare il lettore. Tu stesso sei un lettore: quali passioni ti hanno orientato?

G.P: Per un divoratore di gialli e di noir, era inevitabile assimilare certe dinamiche che sostengono la costruzione di un thriller. Inchiostro rosso, però, non resta imbrigliato nei canoni del giallo tradizionale ma se ne discosta per tentare di trovare una nuova dimensione. Nell'originalità della narrazione l'annoso problema delle lobby farmaceutiche viene così solo sfiorato con cautela.

A.M: quali sono i problemi di "calibratura" di uno scrittore all'opera prima?

G.P: intraprendere la strada impervia della scrittura non è frutto di una scelta consapevole. Non si decide di diventare scrittori: accade e basta. Mi piace a questo punto citare proprio uno dei personaggi del mio libro, il giovane Davide, anch'egli alle prese con la voglia di scrivere ma anche con le mille difficoltà che tutto ciò comporta. "Per scrivere non basta avere talento, serve passione. Occorre miscelare le sensazioni dell'animo. Il lettore deve sentirsi in preda ad una forte emozione, viaggiare con la mente verso l'immaginario". L'esperienza di Davide è ovviamente la mia stessa esperienza. E così scrivere e leggere non possono più essere paragonati similmente a due atti di solitudine e di intimità. Scrivere è il gesto che riaccende ogni cosa, che ci rende liberi, coraggiosi e necessariamente un po' incoscienti.

A.M: hai già delle idee per un'opera seconda? Cosa ti hanno lasciato i personaggi di Inchiostro rosso?

G.P: Nella post-fazione di Inchiostro rosso faccio ricorso ad un espediente: immagino di "rivedere" in un sogno lucido (quando il sognatore prende coscienza di sognare) ogni personaggio del libro. Ognuno a suo modo protagonista del romanzo. Ed ognuno alle prese con la quotidianità di ogni giorno costellata di dubbi, di nostalgie, di solitudini, di paure ma anche di entuasiamo e voglia di continuare a sperare nonostante tutto. Un'umanità in cammino. Ormai vivono autonomamente pronti ad affrontare nuove sfide. Sono convinto che vorranno ancora appassionare il lettore con le loro vicende personali ma che appartengono ad ognuno di noi. Non sarà programmabile quindi il prossimo percorso che questi personaggi vorranno intraprendere, saranno loro stessi a decidere, a scegliere. La storia è appena cominciata.

(FONTE IMMAGINI: pagina Facebook del libro Inchiostro rosso; foto principale: Giuseppe Petrarca presenta il libro nella biblioteca di Nocera Inferiore; all'interno: Antonio Maiorino e Giuseppe Petrarca; copertina di Inchiostro rosso)


Antonio Maiorino

 


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