Il giornalismo è testimonianza dei fatti. Intervista a Sandra Rizza
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PALERMO, 28 GENNAIO 2013 - Sandra Rizza è una giornalista giudiziaria. Ha imparato il mestiere a L’Ora di Palermo. Ha collaborato con il manifesto, La Stampa e come corrispondente dalla Sicilia del settimanale Panorama. Oggi collabora con Micromega e il Fatto Quotidiano. Ha scritto molti saggi sul rapporto tra mafia e politica. È autrice, con Giuseppe Lo Bianco, del libro intervista all’ex magistrato antimafia Antonio Ingroia, Io so.[MORE]
Quando e perché ha deciso di intraprendere la strada del giornalismo?
Non so da dove mi è venuta questo desiderio, ma credo di aver deciso di fare la giornalista fin da bambina. Ricordo che i miei genitori, quando andavo alle scuole elementari, mi regalarono una piccola macchina da scrivere (all’epoca non esistevano i computer), e mi divertivo a confezionare giornalini , scrivendo a macchina gli articoli, ritagliandoli e appiccicandoli sui fogli. Anche a scuola, spesso, scrivevo temi sotto forma di intervista. Era un gioco, ma anche un chiodo fisso.
Cosa significa fare la giornalista come corrispondente da Palermo?
Palermo, dal punto di vista giornalistico, è una ‘’piazza’’ meravigliosa, soprattutto per chi è appassionato di cronaca giudiziaria, ma non solo. Quando ho iniziato a collaborare con L’Ora avevo solo vent’anni: per fare pratica, ho seguito un po’ di tutto: spettacoli, economia, poi cronaca bianca, sindacale, politica, di costume, infine sono approdata alla giudiziaria, passando per la nera. Una formazione assolutamente completa. Al giornale, all’epoca, mi consideravano una sorta di ‘’jolly’’: e ogni giorno mi occupavo di qualcosa di diverso. Poi, chiuso L’Ora, fui costretta a consolidare le mie corrispondenze con giornali a diffusione nazionale, e dunque a concentrare le mie energie sulla giudiziaria. Ho collaborato brevemente con Reporter, più assiduamente con il Manifesto. Poi la mia collega Bianca Stancanelli, trasferendosi a Roma, mi ‘’lascio’’ la sua corrispondenza con Panorama. E così cominciai a collaborare con il settimanale all’epoca diretto da Claudio Rinaldi. Berlusconi non aveva ancora allungato le sue grinfie sulla Mondadori, e Panorama era un ottimo settimanale di inchiesta e approfondimento, incisivo e completo. Nell’89 sono diventata professionista: ero ufficialmente un redattore de L’Ora e nello stesso tempo ero di fatto la corrispondente di Panorama da Palermo. Poi L’Ora chiuse i battenti: l’8 maggio del ’92. Pochi giorni dopo, il 23 maggio di quell’anno, venne ucciso Giovanni Falcone nella strage di Capaci. Da quel momento, mi concentrai sulla cronaca giudiziaria e da allora non mi sono mai ritrovata senza lavoro. Ho lavorato per Panorama, per la Stampa, poi sono stata assunta all’Ansa di Palermo dove sono rimasta per una decina d’anni. Infine, in anni più recenti, dopo le mie dimissioni dall’Ansa, è arrivata la collaborazione con Il fatto quotidiano e Micromega. Qui c’è sempre qualcosa da scrivere. Cosa significa fare la corrispondente a Palermo? Non avere mai un minuto libero e correre sempre all’inseguimento delle notizie.
Giornalismo d’inchiesta, di cronaca nera e giudiziaria; come si diventa cronisti?
Con una grande curiosità per il mondo che ci circonda, che è la dote di partenza, con una grande passione civile, che ti dà la carica per non stancarti mai, e con tanta, tantissima pratica: il lavoro di cronista si impara con il lavoro quotidiano e costante, giorno dopo giorno, fatto di pazienza, testardaggine, precisione assoluta, resistenza alla fatica e allo stress. E con una regola d’oro: il rapporto diretto con le fonti. Poco lavoro a tavolino, molto sulla strada. Non si può pensare di fare il cronista ricopiando le agenzie di stampa, occorre sempre verificare di persona, parlare con le fonti, riscontrare le notizie, e solo alla fine correre al computer e buttare giù il pezzo. Molti giovani sono convinti che il giornalismo sia una sorta di ‘’esercizio letterario’’, qualcosa che ha a che fare con la bella scrittura, con la creatività, una sorta di costola della letteratura. Nulla di più sbagliato. Il giornalismo è testimonianza dei fatti: la cosa più importante per il cronista è costruirsi una rete di fonti, attingere le notizie, verificarle e in ultimo, solo in ultimo, scriverle. La scrittura, insomma, viene alla fine. Certo, è anche vero che chi ha una bella scrittura, è avvantaggiato: perchè un articolo scritto bene sarà sempre più apprezzato di uno scritto male. Ma l’importante è la notizia, il contenuto: fatti nuovi. E un imperativo categorico: attendibilità.
Come si sviluppa un’inchiesta?
Ognuno ha il suo metodo, ma per me è sempre lo stesso. Fonte- riscontro – scaletta- scrittura. Dall’idea di partenza, passo al contatto con tutte le fonti possibili per raccogliere le informazioni. Questa fase, diciamo di ‘’documentazione’’, può essere molto lunga, specialmente se si tratta di un’inchiesta che ha come destinazione un libro. Questa fase comprende la lettura di altri articoli, saggi e materiale storico sull’argomento che si è scelto di approfondire. Poi catalogo il materiale, butto giù una scaletta della storia che voglio raccontare, e infine procedo con la scrittura. Se si tratta di un libro-inchiesta, curo molto la scrittura e la sequenza della narrazione, perché nelle inchieste, specialmente di giudiziaria, i fatti raccontati sono difficili e a volte anche pesanti da digerire: il lettore va accompagnato, condotto con mano, aiutato a capire e ad addentrarsi nei misteri italiani. La chiarezza è essenziale, come il linguaggio, che deve essere semplice e immediato.
Quale ruolo ha oggi il giornalismo d’inchiesta?
Un ruolo molto importante. Se il giornalismo è il cane da guardia del potere, l’inchiesta giornalistica può contribuire a svelare tutte quelle degenerazioni del potere che a volte sfuggono persino alla magistratura. L’obiettivo è informare, e dunque formare: aiutare l’opinione pubblica e i lettori ad attrezzarsi con una piena consapevolezza dei propri diritti, per poter esercitare nel migliore dei modi il proprio ruolo di cittadini. Questo, ovviamente, nell’interesse collettivo e per il bene della democrazia.
L’Italia è un Paese con molti misteri. Perché, secondo lei, non si riesce ad arrivare ad una verità giudiziaria?
Perchè ci sono verità ‘’compatibili’’ e verità ‘’incompatibili’’ con lo status quo, con gli equilibri politici che reggono il sistema-Paese. Se da un’ inchiesta giudiziaria salta fuori una verità ‘’incompatibile’’, che minaccia di far saltare gli equilibri che tengono insieme il sistema, allora il sistema cercherà in tutti i modi di occultare quella verità. L’Italia è un Paese molto particolare, definito da molti un Paese a sovranità limitata, un Paese che per decenni è stato il crocevia di importanti interessi internazionali. L’Italia è il Paese dove la lotta politica è stata combattuta a suon di stragi, la prova sta nel fatto che eventi sanguinosi hanno accompagnato quasi tutti i grandi mutamenti politici. Ed è il Paese dei depistaggi, perché molte delle stragi sono rimaste impunite grazie alle cortine fumogene che si sono addensate sulle indagini, rendendo impossibile l’accertamento della verità. Il grande snodo è quello delle ‘’cointeressenze’’: ovvero la partecipazione di pezzi ‘’deviati’’ delle istituzioni alle iniziative stragiste, in combutta con la criminalità organizzata (a seconda dei periodi, killer dell’estrema destra o sicari mafiosi) con obiettivi di destabilizzazione o stabilizzazione politica. Non è facile scoprire la verità: perchè laddove c’è il sospetto della ‘’cointeressenza’’ , arriva puntuale il depistaggio. E le indagini diventano molto più complesse.
È autrice, insieme a Giuseppe Lo Bianco, di “Io so”. Il libro racconta gli ultimi vent’anni di vita politica in Italia con una lunga intervista all’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, oggi candidato-premier di Rivoluzione Civile, dopo esser stato coordinatore in Guatemala dell’unità di investigazione contro il narcotraffico delle Nazioni Unite. Per quali motivi avete deciso di scrivere il libro? Qual è il suo scopo?
Il tentativo di spiegare ai lettori, con una analisi ragionata, cos’è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio, il periodo nel quale il Paese ha subito la più grande mutazione dal dopoguerra in poi. Spiegare questo mutamento, capire la Seconda Repubblica (fondata – come dice Ingroia - sul sangue delle stragi) che, con il cosiddetto ‘’berlusconismo’’, ha portato un enorme arretramento culturale nel Paese, trasformando l’Italia in un paese razzista, machista, xenofobo. L’atteggiamento di insofferenza alle regole, introdotto da Berlusconi (un imprenditore sceso in campo solo per difendere i propri interessi e i propri miliardi) ha di fatto messo a dura prova le dinamiche politiche della nostra fragile democrazia, tentando di scardinare il sistema fondato sull’equilibrio dei poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario. In venti anni abbiamo assistito allo svuotamento del Parlamento delle proprie prerogative e della propria funzione legislativa (leggi ad personam secondo il capriccio del premier, e decreti sfornati a ripetizione dal governo), ad un continuo attentato all’indipendenza della magistratura (penso alla ‘’riforma epocale’’ della giustizia, più volte minacciata, per fortuna mai del tutto attuata), all’attacco forsennato alla libertà di stampa (il decreto sulle intercettazioni, anche questo mai attuato, aveva solo questo intento): in una parola, ad un assalto permanente alla Costituzione, continuamente accusata di essere ‘’sorpassata’’ e inadeguata. Molti obiettivi non sono stati raggiunti, per fortuna, ma non possiamo ancora dire se il pericolo può dirsi del tutto scampato. Dall’estate del ’92, quella delle stragi di Capaci e via D’Amelio, e’ partito un ciclo che ha veramente modificato la nostra storia. É un ciclo che – sullo sfondo del tramonto del berlusconismo - si chiude oggi con l’indagine sulla trattativa, una ricostruzione dalla quale ricaviamo la possibilità di comprendere, a ritroso, una buona parte di quello che è accaduto dietro le quinte del potere, aldilà delle passerelle e dei proclami antimafia. É come la tessera risolutiva di un mosaico, che arriva all’ultimo, e permette di ricostruire il quadro complessivo.
Nel 1974 Pasolini scriveva: “Io so, ma non ho le prove” parlando degli anni di piombo e di un Paese caratterizzato da false verità istituzionali. Antonio Ingroia ha scritto: “Io so e ho le prove”. Perché avete deciso di dare al libro questo titolo che sembra richiamare Pasolini?
Perchè Pasolini, in quell’articolo del 14 novembre del ’74, racconta in diretta (per la prima volta) la strategia della tensione di quegli anni: svelando l’esistenza di una prima fase (Milano 1969) nella quale le bombe vengono piazzate dai fascisti con la complicità dei servizi deviati, che però le attribuiscono agli anarchici (caso Pinelli, l’invenzione del mostro Valpreda), per creare una tensione anticomunista; e una seconda fase (Brescia e Bologna 1974) in cui le bombe sono piazzate dai fascisti che agiscono in proprio per vendicarsi dei servizi che li hanno mollati e del governo che con Mariano Rumor (presidente Dc del consiglio) si è rifiutato di proclamare lo stato di emergenza nel Paese, promosso ai sicari dopo piazza Fontana. Ecco che con quell’articolo Pasolini denuncia per la prima volta, dalle colonne del Corriere della Sera (quindi con la massima visibilità), la ‘’cointeressenza’’ di pezzi dello Stato nella strategia della tensione. E le sue non sono solo, come ha detto recentemente Paolo Mieli a Servizio Pubblico, ‘’intuizioni poetiche’’, dal momento che molti anni dopo quella stessa analisi sulle due fasi della strategia della tensione e sui rapporti della destra eversiva con pezzi deviati dei servizi, viene condivisa dal senatore Pd Giovanni Pellegrino presidente della Commissione Stragi. Ecco, ci è sembrato che Ingroia, con la sua indagine sulla trattativa (che lui stesso definisce un’indagine ‘’che si è spinta fino alle colonne d’Ercole del diritto’’) abbia avuto lo stesso coraggio di evidenziare per la prima volta in un’inchiesta giudiziaria la partecipazione di pezzi dello Stato a disegni criminali, sia pure concepiti nella superiore logica della ragion di Stato. Ovviamente mentre Pasolini, da intellettuale, non poteva esibire le prove del suo ragionamento, Ingroia – da magistrato- si fa carico di una denuncia molto più dirompente: perchè lui, gli elementi di prova, li ha raccolti. Vedremo se il gup Piergiorgio Morosini deciderà di concludere l’udienza preliminare sulla trattativa ordinando la celebrazione di un processo. Sarebbe la prima volta che in Italia lo Stato processa se stesso.
Ingroia viene accusato di essere un magistrato politicizzato. Il Giornale ha anche promosso una raccolta firme per querelare il PM per aver infangato il buon nome di cittadini che hanno votato per quella fazione politica. Cosa pensa a riguardo?
Nell’intervista che gli abbiamo fatto per il volume ‘’Io so’’, Ingroia ha sintetizzato alcune parti dell’inchiesta sulla trattativa e ha riferito i contenuti di indagini già concluse e approdate nelle aule giudiziarie, distinguendo, sempre con grande correttezza, gli elementi supportati da prove da quelli che non lo sono. Non vedo in questo alcun intento diffamatorio, ma semmai il desiderio di ricostruire ai lettori la ricostruzione della nostra storia recente, così come emerge dalle carte giudiziarie raccolte dalla Procura di Palermo negli ultimi anni. Oggi Ingroia è un magistrato in aspettativa, ha lasciato l’ufficio dove ha lavorato negli ultimi vent’anni, e ha deciso di tentare l’avventura politica. É un suo diritto. Cosa penso della sua scelta? Penso che se ci crede, fa bene a fare quest’esperienza, nel tentativo di portare energie nuove e sane all’interno del Parlamento italiano. Ce n’è bisogno. Mi dispiace soltanto che la Procura di Palermo abbia perso un professionista del suo valore.
Giulia Farneti