I campi profughi di Betlemme

Ludovica Morra
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BETLEMME, 28 MARZO - Essere profughi nella propria terra rinchiusi in campi all’inizio formati da temporanee tende, capanne e poi sempre più stabili case, in muratura, nell’attesa dei suoi abitanti di essere riportati a casa. Il “Right of return”, diritto di ritorno, un sentimento forte nei nonni degli attuali abitanti dei campi profughi di Betlemme e forte ancora oggi, caratterizza la vita di tutti i giorni di una resistenza non armata che cerca di ricostruire una vita lontana dalla propria terra, sotto una continua pressione dovuta alle incursioni dell’esercito armato israeliano. 

Cacciati dalla loro terra per la creazione di uno stato la cui popolazione sembrerebbe avere “più diritto” ad uno stato legittimo, la popolazione palestinese che risedeva dove oggi si trova lo stato di Israele è stata costretta ad emigrare fuori dai confini del nuovo stato e poi ancora una volta, più lontano quando Israele ha esteso i suoi confini fino ad occupare quasi tutta la striscia palestinese. 

Nella zona di Betlemme si trovano i tre campi più importanti: Aida, Deisheh e Al-Azzah, ma  sparsi per Libano, Giordania, Siria e territori palestinesi si contano 58 campi profughi, e secondo i dati Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, nel 2017 i rifugiati palestinesi erano più di 5 milioni.

Con un sostegno per l’istruzione dell’Unrwa sempre più ridotto con l’amministrazione Trump sempre meno ragazzi hanno la possibilità di potersi permettere un’istruzione. Ragazzi senza istruzione, senza un lavoro e senza una terra. Gli studenti disperati sono, da sempre, facile preda per i gruppi terroristici come sottolinea anche Kanaan King Aljamal, direttore degli Unrwa files presso l’Olp.

Limitare un popolo già limitato, frustrato da una battaglia persa durata decenni non può che inasprire una situazione già fortemente tesa. 

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Scritto da Ludovica Morra

Giornalista di InfoOggi

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