"Gravity": missione compiuta per Cuarón, ma con qualche mayday
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GRAVITY DI ALFONSO CUARÓN, LA RECENSIONE - L’ignoto spazio profondo: cioè quello della propria dimensione interiore. Dove pure, a volte, manca l’ossigeno, e ci si lascia stordire nell’asfissia vellutata del vivacchiare, del sopravvivere. Così, pare, per la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock), una figlia morta precocemente in un banalissimo incidente, giornate passate sulla Terra, nell’Illinois, a lavorare macchinalmente e guidare con l’autoradio in sottofondo, “solo musica, basta che non parlino”. Ed ora, alle prese con una riparazione in una stazione orbitante nello spazio. Banale: anche questo, per lei, è routine, mentre i colleghi ballano la macarena tra i satelliti, oppure, come il comandante Matt Kowalsky (George Clooney), gigioneggiano raccontando storie di vecchi abbordaggi – di donne – finiti male. “Houston, ho un presentimento”: e qualcosa va storto anche in missione. Una tempesta di detriti, con danni ad attrezzature e persone. I due superstiti vagano nello spazio tra le mine vaganti in orbita, e alla dottoressa verrà da ripensare ad un po’ di scorie della propria vita pericolante.[MORE]
… UN GRANDE PASSO PER IL CINEMA – Ambizioso nell’allunare su di un territorio visivo pioneristico, Gravity di Alfonso Cuarón tenta la difficile operazione di non farsi investire dai pericolosi detriti del mainstream, puntando a tenere alta una qualità autoriale che dia allo space thriller, indubbiamente appassionante e serrato, la medaglia del film capolavoro. Vi riesce? Qualcosa va storto, nella missione: che pure è ardimentosa. Lo è, in primis, perché la galassia dello sguardo in cui ci s’inoltra con Gravity non è fatuamente spettacolosa. Oltre ad un 3D pazzescamente avanzato ed avanzante, in cui la pienezza dei corpi è funzionale al vuoto degli ambienti, ciò che colpisce delle tecniche di ripresa è che con due personaggi per larghi tratti in una tuta e con lo stratagemma, efficacissimo, della camera senza gravità usata per girare il film, muta il concetto stesso del fare cinema. Non esiste più il “campo fisso”, tutto volteggia; nello stesso momento in cui tutto si fa sublimemente plastico, paradossalmente diventano decisivi i dialoghi, col linguaggio drammatico del corpo che si omologa nella cadenza mascherante degli scafandroni; le luci e le ombre sono diversamente concepite, anzi, i riflessi sono volutamente ricercati sulla trasparenza dei vetri protettivi dei caschi; il piano sequenza – e non era intuizione di regia così pacifica – diventa un propellente micidiale per rendere tutto più avvolgente.
BULLOCK E BULLONI BEN AVVITATI - Consapevole della diversa gravità del luogo drammatico, la regia asseconda con un’ingegneria di livello elevatissimo: ma questa forma sarà funzionale alla sostanza, o ballano solo astronauti, facili sentimentucci ed effetti speciali? La partita della sceneggiatura, che Cuarón si gioca a più mani col figlio Jonàs, si fa tremendamente complicata, dimostrando da un lato un consapevole controllo degli obiettivi, dall’altro un’esecuzione con qualche incidente di percorso. Se Clooney farfallone che sfarfalla nel cosmo può riuscire eccessivamente guascone, è chiaro che i nodi drammatici riguardano tutti la vera protagonista, la dott.ssa Stone\Sandra Bullock. Su di lei, il piano è preciso, e non privo d’intelligenza nelle intenzioni: questa donna che fa benissimo il proprio mestiere, ma non altrettanto quello di vivere, dovrà recuperare il proprio istinto di conservazione, il proprio attaccamento alla Terra, la propria gravità.
Piace che questo percorso sia allo stesso tempo visivo ed esistenziale, con una serie di scene in cui il vuoto sembra invaso da impulsi interiori: la Bullock che si sbarazza della tuta nella navicella russa, grembo di ferraglie, e prende la posizione fetale in assenza di gravità; la complessa e affaticata gestualità liberatoria dell’abbrancarsi, dell’afferrare protuberanze, dell’aggrapparsi a protomi e sporgenze per non naufragare nella scena universale; quei tuboni flosci di ancoraggio delle tute o del paracadute che sembrano i cordoni di una placenta, ma possono strozzare; la sequenza acquatica, di una morte vicina, nel liquido che sembra amniotico, e poco dopo i passi sulla terra bagnata, ora pesanti, con una monumentale inquadratura dal basso. È una donna, adesso, scolpita nell’umo, fatta nell’argilla, rinata: ed il suo personalissimo travaglio\viaggio psicologico ha il sapore di un evento su scala dell'intera umanità.
"CUARÓN, ABBIAMO UN PROBLEMA" – Se, dunque, da un lato ritmo e trovate possono avvicinare Gravity ad un disaster movie, dall'altro è apprezzabile che in più ci sia una correlazione tra l’adrenalina e i neuroni, sicché le avventure nello spazio producano la percezione di uno spazio emotivo: qualcosa doveva esplodere, perché qualcosa implodesse; Clooney doveva essere così pieno di vita, e perfino pateticamente romantico nell’apprezzare le aurore, perché una svuotata Bullock riscoprisse, in volo, la volizione, l’abbarbicarsi all’esistenza; più di una stazione (prima quella americana, poi quella russa, poi quella cinese) si rende necessaria alla dimensione fisica del viaggio, perché il percorso di consapevolezza si snodi tra bruciori, non solo di fuoco e fiamme.
Ma è poi possibile che sia nientemeno che un sogno fatto per stordimento da carenza d’ossigeno a segnare una svolta repentina? Se la sparizione di Clooney, minimale, secca, è un esempio di buon gusto, non sempre lo sono i soliloqui della protagonista femminile, pericolosamente confinanti col vuoto… o col troppo pieno, cioè con la stucchevolezza (vedansi le lacrime in 3D). Considerando l’approssimazione del retroterra della dott.ssa Stone, anzi, del retro-Terra, cioè di tutte le difficilmente riesumabili esperienze terrene del personaggio, il risultato inevitabile è che finisca per mancare una svolta davvero “mistica”: la Bullock resta un personaggio, indimenticabile, ma difficilmente la ricorderemo come persona. Ha la gravità della fiction, più che quella della donna; e certi piagnucolii, pure fastidiosi, si sopportano meglio solo dell’invadente colonna sonora di Steven Price. Un peccato: il grande vuoto sarebbe dovuto restare vuoto sino in fondo, ma Cuarón ha preferito essere spicy anziché spacey, aggiungere la spezia saporosa di una musica epica e rombante, anziché perdersi – e ritrovarsi – nell'infinità, interna ed esterna, degli spazi drammatici.
Gravity di Alfonso Cuarón è quindi un piccolo passo per un (piccolo?) regista ed un grande passo per il cinema: un film impeccabile nella messa in scena, tanto da riuscire d’avanguardia, e deciso nelle traiettorie, sia di spettacolo che di senso, ma a volte a corto del carburante d’idee dello script.
USCITA CINEMA: 03/10/2013
GENERE: Fantascienza, Thriller
REGIA: Alfonso Cuarón
SCENEGGIATURA: Alfonso Cuarón, Jonás Cuarón, Rodrigo Garcia
ATTORI: George Clooney, Sandra Bullock
MONTAGGIO: Alfonso Cuarón
PRODUZIONE: Reality Media, Warner Bros. Pictures
DISTRIBUZIONE: Warner Bros. Italia
PAESE: USA 2013
DURATA: 90 Min
FORMATO: Colore 3D
La recensione su Infooggi di Gisella Rotiroti
Antonio Maiorino
Critico cinematografico e d'arte
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