Faito Doc Festival, i Direttori Nathalie Rossetti e Turi Finocchiaro: cinema, natura e incontro
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Parlano della montagna come fosse una persona, e delle persone del Faito Doc Festival riconoscendo ad ognuna di esse l’attenzione e l’unicità. Nathalie Rossetti e Turi Finocchiaro, registi e direttori artistici del Faito Doc Festival, avevano definito questa XIII edizione (3-7 agosto) come un “prologo” a quella del 2021. Nelle premesse, in effetti, sembrava un’edizione di sola resistenza per l’emergenza Covid-19, come per molti festival cinematografici, nei fatti, un’edizione piena, vissuta da pubblico e artisti ben oltre la transizione. Quest’anno, il festival internazionale del cinema del reale, da sempre attento ai territori cinematografici del documentario e dintorni, ha proposto nell’abbraccio naturale del Monte Faito, tra mare e montagna, un concorso di 13 corti documentari internazionali, in un cartellone in grado di rispecchiare l’identità del festival per la propria variegatezza: workshop (Stefano Martufi col masterclass di sceneggiatura), musica (Akuma dal Belgio, per l’incontro tra rap belga e campano), passeggiate naturalistiche (a cura di Ferdinando Fontanella), la retrospettiva sugli elaborati creativi del Faito Giovani (l’atelier per i ragazzi dagli 8 ai 18 anni condotto annualmente da Benedicte Rossetti) e tanto altro cinema, con opere fuori concorso (meraviglioso il recupero di Lift, storico corto documentario in ascensore di Mark Isaacs) e gemellaggi (in particolare, quello col Peloponnisos International Documentary Festival).
Tra gli eventi in cartellone (qui la presentazione del festival) anche l’incontro con direttori e organizzatori di festival cinematografici campani con più di 13 anni di età, per interrogarsi assieme sulle nuove sfide della promozione cinematografica e sulla mutata vita dei festival. Nel giorno in cui il festival ha ospitato nel proprio forum Paola Mattucci (Mitreo Film Festival), Peppe D’Antonio (Linea d’Ombra) e Rosario D’Uonno (Marano Spot Festival), noi abbiamo ospitato i Direttori Artistici del Faito Doc Festival nel nostro spazio di riflessione per una discussione, genuina e aperta, che partisse dall’identità del Faito Doc e diventasse, più in generale, uno scambio di idee su traiettorie e strategie dei festival di cinema, su come si viva l’incontro col pubblico, sul ponte tra passato e futuro sospeso nell’altezza cristallina del Monte Faito.
ANTONIO MAIORINO: Metamorfosi è il tema di questa edizione, e voi stessi avete dovuto far vivere una metamorfosi al festival per adattarvi alle sfide poste quest’anno dall’emergenza Covid-19. Trasformarsi, a volte, vuol dire diventare ciò che si è davvero nel profondo: in che modo, pur cambiando in parte nella struttura e nella proposta, avete mantenuto gli elementi fondanti della vostra identità?
NATHALIE ROSSETTI: dal punto di vista organizzativo, quest’anno è stato particolare perché il Covid-19 ci ha fatto domandare se si potesse tenere o meno la XIII edizione e ha creato una crisi generale, ma a prescindere dalle condizioni, la cosa più importante per un festival resta quella di non perdere la propria anima. Nel corso di questi anni c’è stata una ricerca continua ed è un po’ come per le persone: si ricerca la propria identità mentre si è immersi nel flusso della vita, in un cambiamento continuo in cui, però, non si perde mai di vista se stessi. È come un sentiero in cui ti perdi e ti ritrovi. Nello stesso modo, ciò che chi partecipa al festival percepisce e vive venendo al Faito, è che per noi ogni nuovo elemento – uno spettatore, un regista, una persona – attraverso il mistero dell’incontro ci fa ritrovare il nostro spirito iniziale. Questo è successo anche nel gruppo dei selezionatori: alcuni già c’erano lo scorso anno, altri si sono aggiunti. Anche nello staff è importante apportare un cambiamento che metta in pericolo, ma in quel pericolo c’è l’oro. Questo mistero va mantenuto; questa magia si conserva grazie al nuovo che ci raggiunge.
TURI FINOCCHIARO: Abbiamo avuto pochi ospiti e quindi abbiamo avuto il piacere e il tempo di stare con loro. Di solito siamo molto presi dall’organizzazione e dalla logistica, invece questa volta siamo stati più a lungo con i tanti protagonisti di questa edizione, compresi i direttori dei festival campani e i gruppi di giovani artisti. Questo è fantastico proprio perché si riallaccia allo spirito iniziale del festival. È una riflessione interessante anche per capire se cambiare qualcosa nei prossimi anni e valorizzare tutto ciò: avere più tempo per vedersi di più, fare della montagna il luogo della magia dell’incontro.
A.M: tra le novità di quest’anno, in attesa di completare e svelare la selezione dei lunghi per il 2021, c’è stato un focus sui cortometraggi. Forse è l’occasione per fare i conti con questo oggetto misterioso: il corto documentario. Un formato spesso penalizzato – il corto – incontra un genere – il documentario – ancora da esplorare, e forse più a suo agio nella durata immersiva del lungo. Dalla vostra selezione, che riflessioni scaturiscono sul tema?
N.R: abbiamo almeno tre cortometraggi che provengono dai lavori finali delle scuole di cinema. Non a caso, ho l’impressione che i giovani delle scuole siano obbligati a passare dal corto per completare la propria formazione, e questo è interessante perché nei giovani c’è ancora la volontà di non lasciarsi “manipolare la testa”. Nei corti c’è un’audacia che nei lunghi qualche volta si perde. Il corto diventa allora l’occasione per sperimentare e la varietà dei 13 cortometraggi selezionati lo dimostra. Abbiamo anche un corto d’animazione e siamo consapevoli del fatto che questo possa far storcere il naso a qualcuno, in quanto corto visibilmente di finzione nell’ambito di una selezione di documentari. Ma il punto è questo: cos’è il cinema documentario? Bisogna porsi e riporsi questa domanda. Abbiamo un cortometraggio d’animazione che s’intitola Purpleboy. In esso c’è una verità profonda, come l’identità di genere: sono uomo o donna? Ci si pone questa domanda attraverso l’animazione, ma si resta profondamente legati alla realtà e al vero, anche se a prima vista si può pensare: questo non è un documentario! I cortometraggi funzionano così, sono finestre che possono colpire il pubblico anche più inconsapevole nei confronti del cinema, perché il loro formato breve permette di rimanere il tempo necessario per farsi colpire. Spesso si sbaglia a dire che certe persone non possano apprezzare un film: bisogna mostrarlo e si scopre un mondo nello sguardo dell’altro.
T.F: ti rispondo collegandomi ad un’esperienza precisa di quest’edizione, quello della giuria del Camino (è un centro terapeutico riabilitativo, i cui protagonisti costituiscono una delle quattro giurie del festival ed è protagonista di un documentario in fase di realizzazione, n.d.R). Per loro il corto è un modo scomodo, nel senso buono del termine, per interrogarsi su alcune cose e alla fine penso che per loro sia qualcosa di arricchente e nuovo che gli permetta di entrare in contatto con un mondo diverso.
A.M: lo “scomodo buono” mi fa pensare all’idea di Nathalie, di perdersi e ritrovarsi, che rispecchia il carattere laboratoriale e improntato al confronto avventuroso del Faito Doc Festival. Ma qualche punto fermo serve sempre, e voi li cercate quest’anno in almeno due eventi di ricerca e schiarimento di idee: il workshop di sceneggiatura di Stefano Martufi, il forum con i direttori dei festival campani over 13. Cosa vi aspettavate di farne scaturire?
T.F: l’idea del workshop di sceneggiatura in due o tre ore può soltanto dare qualche elemento introduttivo molto generale, ma penso che ci siano delle cose che accomunano fiction e documentario. L’idea di Stefano è di voler far capire che la scrittura risponde a delle regole ferree e voler dare forza, voglia e coraggio ad avventurarsi nella scrittura facendo intendere come sia accessibile a quanti hanno delle idee, supportati dalla giusta tecnica. Spero che in queste poche ore gli interessati possano sviluppare questa voglia e faremo anche un incontro al Camino con la stessa idea per permettere a tutti di confrontarsi con questo esperimento.
A.M: funziona, quindi, se il pubblico è vivo. Naturalmente il pubblico è fondamentale in ogni festival, ma al Faito Doc Festival il rapporto è speciale: per il vostro spirito, per il luogo che avvicina. Qual è il ruolo del pubblico per voi?
N.R: noi siamo il pubblico prima di tutto. Siamo registi e siamo un pubblico di storie che abbiamo voglia di raccontare nel cinema. Il pubblico è il primo sguardo al quale dobbiamo riferirci. Questo però è molto diverso dal fare le cose per il pubblico, sono due concetti diversi. È una specie di “specchio reciproco”, è un incontro. L’esempio è quanto accaduto ieri (5 agosto, n.d.R.) durante l’evento dei film greci: c’era un vento fortissimo e avevamo deciso di annullare, ma il pubblico ci ha detto di essere venuto appositamente. Li abbiamo ascoltati e abbiamo continuato nonostante tutto perché è nostra gioia quella di far nascere l’incontro tra lo sguardo del pubblico e quello dei registi. Noi stessi quando andiamo a un festival abbiamo la necessità di vedere come il nostro film sia percepito. Dare questo spazio agli incontri e al pubblico è essenziale in un festival.
A.M: l’idea di confrontarsi, attraverso un forum, con i direttori di festival campani con più edizioni alle spalle delle vostre 13, racconta in qualche modo la vostra apertura e, direi, la vostra umiltà. Ma intanto, qualcosa la potete imparare dalla vostra stessa esperienza: guardando indietro, in questa sorta di adolescenza del Faito Doc Festival dopo 13 anni, in cosa vi trovate cambiati?
N.R: intanto, siamo invecchiati. Io sento una certa fatica e in alcuni momenti mi chiedo se ce la farò. Ma vedi per esempio le cose che succedono: in tanti ci raggiungono da tutto il mondo, come Maria dal Messico tra i selezionatori, Seda dalla Turchia al montaggio, Emma da Bruxelles... ecco, quando arrivano persone con entusiasmo che sono felici di essere lì e di portarti loro la propria ricchezza, ti viene voglia di continuare e torni giovane. Non so se valga lo stesso anche negli altri festival. Ti dimentichi degli sforzi e ti ricordi profondamente gli arrivi di queste persone che fanno parte di un unico progetto. Lo stesso vale anche con i ragazzi del Camino: gli lanci una piccola idea e loro reagiscono con entusiasmo, c’è proprio la gioia di fare le cose insieme.
T.F: abbiamo cominciato quest’avventura in quattro, poi è arrivata Marika De Rosa (la Coordinatrice, n.d.R.) che ci ha portato uno staff che ci ha dato veramente molta forza e che noi abbiamo completato. Ma la cosa bella per noi è aver visto crescere i nostri figli crescere nel Faito e col Faito e oggi vederli iniziare a farse cose: in questa edizione, ad esempio, c’è stato l’incontro tra il rap campano e quello belga grazie alla sezione organizzata da nostro figlio Dante. Il Faito per loro è fondamentale, il Faito Doc Festival non ancora completamente, ma pian piano sta “entrando” in loro. Momenti di scoraggiamento: tanti, anche perché siamo a Bruxelles e l’idea di non poter palpare sempre le reali difficoltà a volte è angosciante, ma lo staff ci dà forza, insieme a persone con una carica straordinaria, mi fanno sperare di arrivare almeno alla ventesima edizione. La voglia è tanta.
N.R: sarebbe bellissimo arrivare alla ventesima edizione, se ce la facciamo. Ma soprattutto ci chiediamo: se noi non ci siamo, il festival perdura con questo stesso spirito? Ci sono molti nuovi arrivati, molti ritorni, si sono create coppie e bambini nel nostro festival e speriamo che il festival perduri con loro, e con i loro figli, come uno spirito della montagna che resti anche se noi non ci siamo più.
T.F: un’altra cosa molto bella è il legame con la natura. Vediamo gente che parte dal Faito con la voglia di tornare soprattutto per il luogo, un’operazione di promozione del territorio con la magnifica scusa del cinema. Il festival è nato anche per condividere questo possono non molto conosciuto. Sono molto orgoglioso nel mio piccolo che Quest’anno abbiamo anche fatto un piccolo gruppo WhatsApp con i giurati internazionali che non sono in loco per condividere momenti ed essere tutti insieme promuovendo questo sapore del Faito. Siamo molto contenti grazie a questo posto fantastico, è una facilità che ci aiuta e ci dà forza.
A.M: chiudiamo con uno sguardo al futuro, raccogliendo tutte le suggestioni di questa chiacchierata, ossia l’incontro, la montagna, il cinema. Il Faito non si limita a mostrare film, ma fa nascere relazioni umane e professionali, progetti artistici, percorsi filmici, collaborazioni interdisciplinari. Ebbene, avete in cartellone un cortometraggio che si chiama Sparks, che vuol dire scintille. Se doveste pensare a questa edizione “prologo” come alla scintilla in grado di generare una metamorfosi, qualcosa di nuovo e di diverso, cosa vi aspettate che possa nascere di qui all’anno prossimo?
N.R: ci sono tre novità che spero possano un giorno nascere. Già dall’anno prossimo, pian piano, cominciando a seminare. Per esempio, tra i selezionatori abbiamo Amel Bouzid, che un’esperienza decennale di produttrice esecutiva, e che sogna di fare sul Faito... beh, questo è uno scoop... dai, dillo tu (rivolgendosi a Turi, n.d.R)...
T.F: (dopo vari “dillo tu” reciproci, n.d.R) Amel, quando venne Al Faito Doc nel 2009-2010, voleva creare qua un mercato internazionale del documentario, piccolo ma forte... non so quanti ce ne siano in Italia. Il Faito diventa un luogo incontournable (imprescindibile, fondamentale; n.d.R.) per vedere film, crescere, portare sviluppo, possibilità di fare, far nascere progetti con delle pitching sessions per una parte di mercato piccola.. ma non troppo. Le potenzialità ci sono. È un’idea di Amel che avevamo un po’ dimenticato e lei ci ha ricordato quest’anno. I film potrebbero essere visti, andare avanti, essere prodotti, trovare partner, circolare.
N.R: un secondo progetto è quello di aprire una finestra che forse chiameremo Doc now!, con il Faito che diventa il luogo d’incontro con registi affermati, vincitori di premi in festival internazionali, per chiedersi: in che direzione vanno il documentario e il cinema del reale? Allo stesso tempo – e questo è il terzo progetto – vorremmo aprire una piccola finestra per i corti di pura finzione. Queste sono le nostre tre novità. Il mercato è la cosa più ambiziosa, ma possibile.
A.M: vi auguro di percorrere il sentiero che porta alla ventesima edizione, purché abbiate ben presente che la vita, a volte, inizia proprio a vent’anni. Grazie per l’intervista.
RIFERIMENTI
(IMMAGINI, FONTI: immagine principale, preparativi delle proiezioni serali durante al Faito Doc Festival 2020 presso il Belvedere; all'interno, prima immagine: Nathalie Rossetti; seconda immagine: Turi Finocchiaro. Entrambe le immagini sono tratte da edizioni precedenti. Il fotografo ufficiale è Alessio Lucchisani)