Crederci sempre e mai rassegnarsi. Intervista ad Alessio Magro, fondatore di Stopndrangheta.it
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CATANZARO, 12 AGOSTO 2012 - Alessio Magro, giornalista e fondatore dell’archivio web multimediale Stopndrangheta.it, è convinto che si debba indagare in profondità sulla realtà, cercare una sorta di via d’uscita dal silenzio. Il sangue versato dai giusti è un effetto della lotta alla mafia e non la causa. Giornalisti, magistrati ecc. non dovrebbero mai fare il salto in Parlamento, perché spesso ciò tradisce una visione elitaria della politica che non fa altro che alimentare l’antipolitica. La Politica con la maiuscola è altra cosa.
Come e perché è nata la tua sensibilità nei confronti della criminalità organizzata?
Un doppio motivo: sono calabrese e sono un giornalista. Credo che ogni cittadino di questa terra si trovi prima o poi a fare i conti con le mafie. Si può far finta di nulla, chiudere gli occhi, convivere con le cosche o addirittura diventarne complice. Si può anche rifiutare il modello culturale mafioso. Per me la scelta è stata davvero facile. Più difficoltoso, invece, è stato maturare la consapevolezza dell’esigenza di fare qualcosa di concreto per cambiare le cose. L’esperienza di cronista nasce probabilmente dal desiderio di indagare più a fondo la realtà, cercare una via d’uscita. Penso sia un dovere civico. Un’esperienza che mi ha aiutato a capire che va ricostruita una memoria collettiva antindrangheta, un’identità alternativa a quella mafiosa che permea purtroppo tutti noi, se non altro sotto forma di quella malattia tutta calabrese che è la rassegnazione. Dunque è una sensibilità che nasce dalla rabbia per quello che la Calabria, ma il discorso vale per l’Italia intera, ha dovuto subire a causa delle cosche, e dal senso di colpa per l’inerzia e i silenzi dei calabresi, e non solo.[MORE]
Perché hai deciso di fondare e coordinare l’archivio web multimediale Stopndrangheta.it?
L’archivio Stopndrangheta.it è la nostra risposta all’esigenza di creare strumenti utili a ricostruire la memoria collettiva calabrese e rifondarne l’identità, sulla base delle migliori esperienze antindrangheta del nostro glorioso e dimenticato passato. Questo è il senso del portale: mettere in rete informazioni e stimolare una riflessione collettiva. È anche il tentativo di costruire un immaginario antindrangheta, un’azione pionieristica che ci vede ancora molto indietro. L’immaginario è l’insieme di valori condivisi, senso civico, consapevolezza delle proprie radici, senso di appartenenza che tengono insieme una collettività. Agire sul livello dell’immaginario vuol dire portare l’attacco alla ‘ndrangheta sul piano culturale: prima di poter costruire una società senza mafie è necessario sognarla, desiderarla e soprattutto crederla possibile.
Il movimento antimafia ha cominciato a muovere i primi passi come conseguenza del sangue versato dai giusti oppure si è sviluppato come coscienza sociale?
La storia del movimento antimafia s’intreccia con la storia del movimento operaio e contadino, in Sicilia come in Calabria. Il sangue versato è un effetto della lotta alle mafie e non la causa. È chiaro che l’eco delle stragi ha trasformato la questione mafie in questione nazionale. Ci sono volute le stragi di Capaci e Via D’Amelio, l’omicidio Fortugno e la strage di Duisburg per imporre la lotta alle cosche nell’agenda politica di questo Paese. Per decenni, dunque, solo una parte della società ha sentito l’esigenza di contrastare le mafie mentre, occorre averlo bene in mente, chi ha avuto in mano le leve del potere è sceso a patti con la criminalità organizzata. È questa la caratteristica delle mafie. Del resto, se si trattasse semplicemente di malviventi sanguinari sarebbero stati sconfitti da un pezzo. Non bisogna illudersi: ancora oggi è così. Ma il movimento antimafia è cresciuto enormemente. La partita è aperta.
Cosa significa fare libera informazione?
Credo significhi rispettare il lettore, raccontando i fatti dal proprio punto di vista ma con trasparenza. Potrà sembrare banale, ma sono convinto che il rispetto di questa semplice regola aurea rivoluzionerebbe il mondo dei media.
Giuseppe Fava sosteneva che il giornalismo fatto di verità impedisce corruzioni, limitando violenza e criminalità e impone ai politici un buon governo. Al contrario un giornalista incapace ha sulla coscienza sofferenze e sopraffazioni che avrebbe dovuto combattere, sei d’accordo?
È un punto di vista estremo, che però rende bene un concetto: fare il giornalista è un po’ come fare il chirurgo, nulla può essere preso alla leggera. Credo però che il mestiere di giornalista sia più complesso: occorre stimolare il lettore a una riflessione di lungo periodo, educarlo a esercitare una critica. Altrimenti, e lo vediamo in questi anni di giustizialismo estremo e di giornalismo-spettacolo, si educa la gente al qualunquismo, all’indifferenza e alla rassegnazione.
Perché la ’Ndrangheta è considerata la mafia più potente del mondo?
Credo sia un’organizzazione molto temuta sul piano europeo per la sua capacità di colonizzare territori vastissimi pur mantenendo un legame forte con la casa madre, di mescolare la modernità estrema con la tradizione arcaica. A ben vedere, la ‘ndrangheta è una multinazionale armata, e per questo fa paura.
“La mafia, in questo momento, sta zitta ed è più pericolosa di quando spara, perché vuol dire che si sta organizzando, sta ricostruendo le famiglie, la Cupola”, così Giuseppe Giordano, ex ispettore della DIA di Palermo, conclude l’incontro avvenuto al liceo scientifico di Forlì qualche mese fa, condividi?
Non so se la mafia sia più pericolosa quando sta zitta, ma di certo è molto più sottovalutata, almeno fino ad oggi. In questo senso diventa più pericolosa.
In molti affermano che le mafie italiane siano intrecciate fortemente con il potere, diventando parte integrante del sistema, sei d’accordo?
Ripeto, quella mafiosa è una modalità di esercizio del potere. Ecco perché si parla di borghesia mafiosa. Ma la mafia è sistema anche in un altro senso: in una società che spinge alla competizione selvaggia, calpesta i diritti civili e sociali ed eleva il denaro a valore unico, il mafioso non può non avere successo.
La Legge Bavaglio, fortemente voluta dal PDL, impone il divieto di pubblicare le intercettazioni prima della fine del processo, cosa pensa a riguardo?
Credo che limitare il diritto-dovere di cronaca sia criminale. Credo anche, però, che pubblicare intercettazioni e cavalcare gli scandali politici, senza porsi il problema di alimentare la coscienza civile degli italiani produca un effetto boomerang nel lungo periodo. Anche il giornalismo ha delle responsabilità pesanti nella deriva italiana.
Antonio Ingroia afferma: “C’è un momento in cui è necessario che le vicende vengano spersonalizzate. Non si tratta di fare un passo in dietro, ma di fare un passo di lato. C'è un momento in cui i cittadini devono capire che la ricerca della giustizia e della verità non può essere solo delegata alla magistratura, o a pochi altri. Ognuno è chiamato a fare la propria parte. La mia decisione di fare l'esperienza in Guatemala è legata anche a questa mia convinzione”. Tu cosa pensi?
A prescindere dall’affermazione di Ingroia, credo che ognuno debba fare la propria parte. E che, di certo, con poliziotti e magistrati non si governa un paese né si costruisce una società coesa perché non è questo il loro compito. Dunque condivido l’idea secondo la quale giustizia e verità non possano essere delegate alla sola magistratura. D’altro canto, però, resto sempre parecchio perplesso quando giornalisti, magistrati ecc. fanno il salto in Parlamento. Non perché ci sia in ciò uno scandalo, ma perché spesso ciò tradisce una visione elitaria della politica che non mi appartiene. E che altro non fa che alimentare l’antipolitica. La Politica con la maiuscola è ben altra cosa.
Giulia Farneti