Cercare sempre e comunque la verità. Intervista a Giuseppe Pipitone
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Forlì, 17 settembre 2012 – Giuseppe Pipitone, classe 1987, scrive su Il Fatto Quotidiano e ha scritto Il Caso De Mauro per far luce su una delle pagine più buie della storia italiana. Fare il giornalista oggi significa spesso lavorare senza alcuna certezza economica o professionale, ciò nonostante si farebbe ugualmente per amore di questo mestiere. Il cronista deve cercare di raccontare la verità, anche se scomoda per molti. Le vittime delle mafie sono morte perché lasciate sole da chi rimaneva a guardare dalla finestra quello che stava succedendo.
Quando e perché nasce l’interesse per il giornalismo e la criminalità organizzata?
Io sono nato ad Alcamo, una città di 50 mila abitanti in provincia di Trapani. Nei primi anni ’90 la famiglia mafiosa di Vincenzo Milazzo, fedele ai corleonesi di Totò Riina, subiva gli attacchi di una cosca rivale, la Stidda dei Greco. In poco tempo ci furono un centinaio di omicidi, tutti nella piazza principale, tutti in pieno giorno. Io avevo 5 o 6 anni ma credo di ricordare gli spari, le sirene azzurre della polizia, la parole sottovoce dei “grandi”… credo di aver sempre saputo cosa fosse la mafia, credo di averla respirata per strada e aver saputo sempre che era una porcheria, una cosa brutta. Crescendo è stato quasi naturale combatterla, prima dalle file dei cortei, e poi iniziando a raccontare processi e estorsioni sui giornaletti locali.
Cosa significa oggi fare il giornalista d’inchiesta nel territorio siciliano?
Significa girare come un matto per verificare notizie, trovare particolari, assicurarsi i documenti che provino quello che scrivi senza farti querelare. O comunque senza perderle le decine di querele che ti piovono addosso. Significa essenzialmente lavorare un sacco alla periferia dell’impero, in cui però si decidono le dinamiche centrali dell’impero. Significa spesso lavorare senza alcuna certezza economica o professionale. Il bello è che lo faremmo anche gratis.
Cos’è oggi la mafia?
Posso dirti cosa può essere la mafia. Fatta eccezione per il racket, lo spaccio, il business dei grandi centri commerciali, delle energie rinnovabili e dello smaltimento rifiuti – tutti settori su cui ci sono paginate di quotidiani – direi che chi non vuole la verità sulla stragi possa essere ricondotto comunque dentro l’insieme che in qualche modo possiamo definire mafia.
E’ insita nella politica, nell’economia, nella finanza e nell’impresa, perché è estesa ormai in tutto il Paese?
Non solo, è estesa ovunque perché ormai è dentro anche a certa antimafia. Per intenderci mi riferisco all’antimafia di cartone, a quella che ha dichiarato guerra ai micro boss di quartiere ma fa affari a otto zeri per mettere su termovalorizzatori e parchi eolici.
Pensi sia importante continuare a tenere viva la memoria di coloro che sono stati uccisi dalle mafie? Perché?
Se non altro per rispetto verso quelle persone che magari hanno dato la vita soltanto perché facevano il loro lavoro. E poi per ricordare sempre che molte persone sono morte perché lasciate sole, sono morte mentre anche la gente che oggi definiamo onesta rimaneva a guardare dalla finestra quello che stava succedendo in strada.
Qual è la situazione del sistema mafioso a Palermo e nei territori limitrofi?
Credo che Cosa Nostra militare come abbiamo imparato a conoscerla negli anni ’80 e ’90 non esista più. I residui delle vecchie famiglie mafiose sono composti da ex galeotti senza molto cervello e sforniti di forza militare. Il problema è nel grande business, è nelle città come Castelvetrano , meno di 50 mila abitanti e più centri commerciali di Palermo.
Ritiene che esista ancora un giornalismo libero e non censurato?
Certo che si. Ma è sempre più emarginato, sfruttato, gettato all’angolo e ricattato. A volte dagli stessi super direttori che vanno in tv a parlare di libertà d’informazione.
Il Fatto Quotidiano ha aperto una vera e propria campagna per rompere l’accerchiamento dei pm siciliani che cercano la verità sulla trattativa stato – mafia”. Hai aderito? Ritieni sia importante aderire?
Stiamo parlando del giornale con cui collaboro da Palermo, dove mi occupo soprattutto di cronaca giudiziaria e nella fattispecie dell’indagine sulla Trattativa: mi sembra chiaro che ho aderito.
Il magistrato Antonio Ingroia è stato ufficialmente "promosso" all'Onu e va, tra qualche settimana, in Guatemala.
Cosa ne pensi di questa “promozione”?
Non so se è stato promosso, so che ha chiesto lui di andare. La magistratura italiana perde un grande investigatore, uno che ha una visione storica completa della storia di questo Paese. È anche vero però che nessuno lo ha trattenuto.
Anche Vietti (Csm) è contro i pm. Ingroia replica che non si sente solo né isolato, ma spesso ingiustamente attaccato. Cosa ne pensi?
Che è vero. Che ormai in Italia non si guardano le indagini nel merito e nemmeno le leggi. Ormai vince chi la spara più grossa. Penso alle tante dichiarazioni estive sul confitto Quirinale - procura di Palermo. Penso a Cicchitto che ha invitato i pm palermitani a distruggere le intercettazioni Mancino Napolitano senza passare dal gip, incitandoli quindi a commettere un reato.
Chi era/è per te Mauro De Mauro?
Un giornalista che è morto perché faceva l’unica cosa che dovrebbero fare i cronisti: cercare di raccontare una verità scomoda per tante, troppe persone. Solo che quella verità consisteva nel fatto che il presidente dell’Eni Mattei non era morto per un incidente aereo ma era stato assassinato. In pratica De Mauro aveva in mano le chiavi per decriptare il grande ricatto della prima repubblica italiana. Se chiedete ad Andreotti vi risponderà ancora oggi che “Mattei è morto in un incidente”. E infatti De Mauro non viene soltanto assassinato, ma sono state insabbiate le indagini sulla sua scomparsa. Fino ad oggi.
Hai scritto “Il caso De Mauro”, giudicata una delle pagine più buie della storia italiana, perché hai sentito il bisogno di raccontare il giornalista dell’Ora?
Perché per 40 anni si è detto e si è scritto che “De Mauro è morto perché scriveva di mafia”: non era vero! De Mauro scriveva con coraggio e talento degli affari della piovra, ma non è morto per questo. È stato assassinato da Cosa Nostra, ma il mandante non è Totò Riina e nemmeno Stefano Bontade. Il mandante si chiama Stato. [MORE]
Giulia Farneti