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BIRMANIA, 4 SETTEMBRE 2012- Era il 18 settembre 2007. Un lungo corteo di monaci birmani dava inizio alla “Rivoluzione Zafferano”, colore che richiamava la tinta delle loro vesti. Motivi nobili li avevano spinti a scendere in piazza. Volevano dichiarare la propria opposizione alla mancanza di rispetto dei diritti umani praticata dalla giunta militare al potere. A cinque anni di distanza altri cortei composti da centinaia di buddisti si sono formati in questi giorni, ma con uno scopo differente: asserire il loro sostegno alla politica di ghettizzazione di quella stessa giunta prima ripudiata ai danni degli 800mila musulmani di etnia Rohingya presenti nell’ovest del Paese. [MORE]
Il presidente Thein Sein viene osannato per le proposte avanzate al fine di risolvere il “problema”. Tra le ipotesi vi è l’espulsione forzata verso qualsiasi paese disposto ad accoglierli o la creazione di campi d’internamento come quelli voluti per i giapponesi negli Usa durante la Seconda guerra mondiale. Ipotesi che l’Onu ha respinto con fermezza. Quale la sorte di queste 800mila persone dunque, in un Paese compatto nel chiederne l’espulsione? Ad oggi sono vittime di violenze e discriminazioni quotidiane; è stato loro negato persino il diritto di cittadinanza. Un odio palpabile, oggi messo in piazza davanti al mondo intero. Solo a giugno tale odio ha portato allo scoppio di violenze tra le due parti, con la morte di oltre 90 persone- quelle attestate. E chissà quante altre ne porterà questa rivoluzione votata alla creazione della “nuova Birmania”.
Federica Sterza
Foto www.quieteaccesa.altervista.org