Antonia Caprella. Era l’anno 1944 (Ricordi spariti)
La strada della vita Calabria Catanzaro

Antonia Caprella. Era l’anno 1944 (Ricordi spariti)

domenica 9 febbraio, 2020

Il paesino in cui vivevo era una piccola comunità (duemilacinquecento abitanti), situato in una vallata a ridosso delle montagne, nell'entroterra ionico. È attraversato da un  fiume che sfocia nel mare, proprio dove la leggenda narra che Ulisse incontrò Nausica. A trecentoventidue metri sul livello del mare, dista dallo stesso poco più di dieci chilometri.

Le origini del mio paese, come quelle di tutti i comuni che sorgono sulle pendici della Serralta di San Vito, naturale corona alla Valle dell'Alessi, sono da ricercare nelle vicende degli Enotri, popolazione che in tempi remoti abitò quella zona della Calabria, là dove la penisola si restringe, situata fra il golfo di Squillace e quello di Lamezia Terme.

A quei tempi, tale territorio si chiamava Conca d'oro. 

Dal mio terrazzo si potevano ammirare in lontananza, un lembo di spiaggia e una distesa d’aranceti: il profumo intenso delle ginestre arrivava fino al paese inondandone le case e le strade.

Il paese ospitava un frantoio dove si trovava una grande vasca di pietra viva, la macina. All’interno due grandi ruote, anch'esse di pietra, erano attaccate a un'asse di legno che veniva trainata da due buoi affinché, girando intorno alla macina, muovessero le ruote tritando le olive: formavano una poltiglia melmosa che veniva raccolta in alcuni recipienti chiamati coffe. Dopo le coffe erano poste sotto una pressa di ferro, chiamata “uomo morto” per le due braccia di ferro che servivano a spremere i recipienti pieni di sansa d’oliva. L'olio affluiva in una tinozza, per poi essere successivamente travasato nelle giare di creta.

C'era anche un mulino ad acqua alimentato dal fiume, dove le donne si riunivano per lavare la biancheria e spettegolare. A quei tempi non si usava il detersivo per i panni perché non c’erano i soldi per comprarlo e si provava molta diffidenza verso le novità. Lo si poteva comprare dall’unico droghiere del paese che lo vendeva a grammi, ma le donne preferivano seguire la tradizione: accendevano il fuoco sull’argine del fiume e mettevano a bollire dentro delle grandi caldaie di rame, posate su grossi treppiedi di ferro, dell’acqua con tanta cenere: quella che si ricava dalla legna del camino. Conservo le caldaie di mamma e di nonna.

Le donne lavavano i panni su grosse pietre di granito grezzo, con il sapone fatto da loro stesse usando la sansa dell’olio (quel denso deposito che lasciava l’olio, non era filtrato come oggi) e della soda. Una volta passati li depositavano dentro una grossa cesta fatta di canne e bastoncini di virgulti d’olmo  (che mio padre era molto bravo a costruire e  vendeva guadagnandoci qualche soldo) e aggiungevano uno strato di cenere asciutta e dell’acqua bollente. Poi lasciavano riposare il tutto per un paio d’ore, chiacchierando e attizzando il fuoco. Erano bei momenti! Vedere tutti quei fuochi accesi e quelle caldaie che bollivano… le nostre mamme, con il costume calabrese e il riflesso della fiamma su i volti ci sembravano bellissime!

Noi bambine entravamo nel mulino affascinate dal rumore assordante della generosa cascata d'acqua che faceva girare l'argano di legno e la grossa ruota di pietra. Il mugnaio svuotava i sacchi di grano nel grosso imbuto di legno, lasciando che finisse sotto la pietra che, girando, lo macinava. Infine, terminata la lavorazione, il grano divenuto ormai farina finiva in una grossa vasca di pietra.

In paese c'era anche un negozio mal fornito di generi alimentari, che fungeva anche da drogheria e da macelleria, dove spesso si vendevano alimenti avariati. C'erano, poi, un negozio di tessuti, (quello della mia mamma) un negozio d’abbigliamento e un bar dove noi ragazzi ci riunivamo ad ascoltare la radio: un’enorme radio sistemata dentro un mobile di legno lucido con grosse manopole rotonde e dorate, da cui tutti seguivano trepidanti le notizie della guerra.

Poi c'erano tante botteghe di maniscalchi che ferravano somari e cavalli. I somari erano la vera ricchezza di ogni famiglia: chi non possedeva un somaro era povero. Povero  perché non possedeva terreni da coltivare e quindi viveva nella miseria più nera elemosinando o offrendo qualche servizio ai più fortunati.

Ricordo che la nonna, la domenica mattina faceva, insieme ad altre donne che l'aiutavano nelle faccende di casa,  il pane di grano che poi portava in Chiesa per i poveri: panini piccoli ma molto, molto gustosi. La nonna era bravissima a fare il pane… era brava a fare tutto e mi ha insegnato moltissimo. Mi voleva molto bene, io  ero la sua unica nipotina femmina.  

Correva l'anno 1944 e nel mio paese si viveva ancora la tragedia della guerra.

Ogni famiglia piangeva i suoi caduti sul campo di battaglia chiedendosi il perché di tanto sangue e di tanta distruzione. La guerra era alla fine, ma il cuore della gente era pieno di dolore e triste per il lutto. 

La comunità era terrorizzata per le angherie e le ingiustizie subite durante quegli anni e alcuni bambini, ancora per qualche tempo, andavano a scuola con la divisa da piccolo balilla.

Una figura temuta, in quel periodo, era quella del Podestà: la massima autorità fascista che governava il paese. Controllava e spiava tutti, usando i suoi scagnozzi militari.

Purtroppo, in tempo di guerra dovevano  fingere di essere fascisti per aiutare i compagni partigiani nel poter continuare a lottare.

Ricordo che il punto d’incontro dei partigiani era un sotterraneo dove si trovava un telaio. Nella mia mente porto custodito il ricordo di un uomo steso su una panca di legno.   Perdeva molto sangue, intorno a lui tanta  gente e c’era anche il vecchio medico che da tempo era malato, una grossa pentola di rame piena di acqua  bolliva su un focolaio di mattoni rossi, e le donne che strappavano lenzuola bianche per fare le bende per fasciare le ferite. Una vecchia stava nella stanza attigua seduta su una panca che armeggiava con il telaio.

 Fungeva anche da laboratorio per il lino che i contadini coltivavano nelle zone acquose della campagna: prima lo mettevano a mollo, poi lo pestavano con pali di legno e quindi lo cardavano con assi di legno da cui spuntavano fitti chiodi. Lo filavano con il fuso e la canocchia e, infine, lo tessevano con il telaio.

La mia era una famiglia benestante che viveva coltivando la terra e, per fortuna ne possedeva parecchia. Al tempo, si scavavano delle buche nel pavimento delle stalle per nascondervi i viveri necessari. Esisteva una legge chiamata “l'ammasso”, che permetteva di confiscare ogni bene alle famiglie, compreso tutto quello che si coltivava, per arricchire le casse dello Stato.

Tutti i cittadini, compresi  i miei genitori, erano costretti a versare nelle casse dello stato tutto quello che possedevano… anche le fedi nuziali. Alle famiglie lasciavano solo dolore e fame. La mia famiglia riusciva a dare da mangiare a parecchi poveri e a nascondere i partigiani nelle proprie stalle. Un dolore che nel ricordo si trasforma in soddisfazione.

Antonio Caprella

 

 


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