Addio a Damiano Damiani: non solo "La Piovra", un regista tra Kafka e l'inchiesta popolare
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ROMA, 8 MARZO 2013 - Il cinema è in lutto, e non solo quello italiano: si è spento a 90 anni Damiano Damiani, regista e sceneggiatore – nonché scrittore ed attore – da molti associato alla serie tv de La Piovra, ma in realtà dalla filmografia di lunga data, di ottima qualità e soprattutto contraddistinta da una coerente identità d’impegno civile. Damiani, nato a Pasiano di Pordenone il 23 luglio 1922, è deceduto nella propria abitazione per un’insufficienza respiratoria. Benché non lavorasse da dieci anni, verrebbe da pensare che la sua opera di denuncia della cupola di potere, pienamente rispondente prima al clima sessantottino e poi agli anni di piombo, oltre a detenere un indubbio valore storico, sia di stringente attualità.[MORE]
Dopo aver studiato all’Accademia di Brera a Milano, Damiani ha esordito nel cinema nel 1947 con il documentario La banda d’Affori, seguito sette anni più tardi da Le giostre. Per intenderci, la sua è la generazione dei Lattuada, degli Olmi, dei Comencini, benché sulle prime Damiani vi s’inserisca per lo più da sceneggiatore. Per il primo lungometraggio di fiction, dobbiamo aspettare infatti il 1960, con Il rossetto, storia di una ragazza testimone di un omicidio, ma innamorata dell’assassino, che la sfrutta per sfuggire alla giustizia. Nel cast anche Pietro Germi, che impersona il commissario.
La filmografia prosegue con Il sicario, un noir all’italiana sull’affarismo senza scrupoli della borghesia nostrana. È un titolo di svolta, perché rafforza il proposito creativo dell’autore di darsi ad un cinema di denuncia, in cui la violenza del potere, invadendo la burocrazia, è un dato all’ordine del giorno.
La trilogia d’inizio anni sessanta si completa con L’isola di Arturo, che adatta l’omonimo romanzo di Elsa Morante, su di una sceneggiatura di Ugo Liberatore e Cesare Zavattini protesa a rimarcare l’aspetto psicologico ed introspettivo dei personaggi. La rimpatriata, con Walter Chiari, è dell’anno seguente e guadagna il premio Fipresci: forse ancora sull’onda emotiva del film precedente, la vicenda parla della borghesia dell’epoca, attraverso un incontro tra vecchi amici, ma col sapore amaro del rimpianto ed un sottofondo psicologico e sociale, distante da certa virulenza de Il sicario.
C’è odore di ’68 sia in Quién sabe? (1967) che ne Il giorno della civetta (1968). Il primo è uno dei migliori spaghetti western della storia del cinema, col trio memorabile formato da Klaus Kinski, Gian Maria Volontè e Lou Castel, ad interpretare una vicenda in cui un bounty killer americano (Castel) s’immischia in un traffico d’armi della rivoluzione messicana, incrociando la strada di un capopopolo (Volontè) e del fratello predicatore (Kinski). Il secondo, dal romanzo di Leonardo Sciascia, è un film dall’impianto realistico, forse influente anche sul genere del poliziottesco, in cui la denuncia della connivenza tra politica e mafia assume un carattere dalle forti tinte drammatiche. Funziona a meraviglia il duo Franco Nero – Claudia Cardinale, coppia di attori apprezzata da Damiani e più volte impiegata.
Gli anni ’70 confermano quest’idea, potente e coraggiosa, di solcare il filone legal, ma sempre con intenti di denuncia ed impianti narrativi serrati: dopo la parentesi de La moglie più bella, che lancia Ornella Muti, è la volta di Confessione di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica, con Martin Balsam ed ancora Franco Nero, e del successivo L’istruttoria è chiusa: dimentichi, sempre con quest’ultimo, e nuovamente nel formato del poliziesco sulla mafia. È la cronaca contemporanea ad ispirare nel ’72 Girolimoni, in cui Nino Manfredi interpreta il fotografo romano accusato negli anni ’20 di aver ucciso delle bambine, ma scarcerato per mancanza di prove.
Nel ’73 Damiani è anche attore, interpretando Giovanni Amendola per il regista Florestano Vancini ne Il delitto Matteotti. Allo stesso decennio appartengono anche Perché si uccide un magistrato (1974), con Franco Nero, in cui un giovane regista indaga sulla morte di un magistrato che aveva messo sotto accusa nel suo film; la commedia spaghetti western Un genio, due compari, un pollo (1975) con Terence Hill; il thriller Goodbye & Amen (1977), con Tony Musante e Claudia Cardinale; Io ho paura, dello stesso anno, con Gian Maria Volontè, che invece assorbe dal poliziottesco contemporaneo l’idea della giustizia privata, attraverso la storia di un brigadiere intenzionato a prendere le dovute, personalissime misure dopo l’uccisione di un giudice a cui aveva fatto da guardia del corpo. Nel ’78 dirige anche Michele Placido, che in queste ore ha rilasciato all’Ansa delle dichiarazioni di sincero cordoglio ("Lo dico con il cuore e con le lacrime agli occhi: io a Damiano Damiani gli devo tutto”). Il film è Un uomo in ginocchio, con Giuliano Gemma ed Eleonora Giorgi.
Si può però dire che siano altri due i prodotti meglio riusciti con Michele Placido, ed entrambe ci portano negli anni ’80. Il primo è La piovra, su suggetto di Ennio De Concini, con un indimenticabile Commissario Cattani, eroe antimafia, interpretato proprio da Placido, che diventa il coagulo, anche fisico, di quell’intrico torbido e pericoloso tra istituzioni politiche e criminalità organizzata. La serie proseguirà per altre nove stagioni, con registi diversi. In Pizza Connection (1985) l’attore è invece un killer palermitano di stanza a New York, richiamato in patria per eliminare uno scomodo Procuratore della Repubblica. Il film vinse l’Orso d’Argento a Berlino. D’altro tono, ma con in filigrana ancora una riflessione sui meccanismi della giustizia sia pure con forti contaminazioni di tono religioso, è L’inchiesta (1987), con Harvey Keitel nei panni di un Pilato sottoposto, ai tempi di Gesù, ad un’indagine da parte di un funzionario dell’Imperatore per la scomparsa del cadavere del Cristo.
Gli anni ’80 conoscono anche qualche incursione nell'horror, con Amytiville Possession (1982), diretto negli USA, con Burt Young, James Olson, Jack Magner. Hanno un certo sapore noir, ma con acute indagini sul senso antropologico e sulla psicologia rispettivamente della mafia e del delitto, due film come Il sole buio (1989) e L’angelo con la pistola (1992), che traghettano il percorso artistico di Damiani entro un decennio aperto da un altro importante successo televisivo, Il treno di Lenin (1990), ma chiuso da un flop para-teleivisivo, con Alex l’Ariete (2000), interpretato da Alberto Tomba e Michelle Hunziker. Di due anni dopo l’ultimo lavoro sotto i riflettori, Assassini dei giorni di festa, adattato dal romanzo dello scrittore argentino Marco Denevi: una compagnia di attori squattrinati si riunisce per la veglia funebre del loro capocomico, con risvolti grotteschi.
Il film fu riconosciuto d'interesse culturale nazionale dalla Direzione generale per il cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano, a riprova della capacità di Damiano Damiani di mantenersi fedele alla propria cifra stilistica, senza restare fuori dal proprio tempo nel corso dei decenni, e soprattutto senza tradire il proprio impegno culturale e civile. Un regista, inoltre, in grado di far luce a livello tanto di cronaca quanto esistenziale, con sapore kafkiano, sui risvolti della giustizia, e di raccontare con dramma spettacolare, ma senza svilenti riduzioni, problemi dell'Istituzione, problemi della gente.
(in foto: Damiano Damiani)
Antonio Maiorino