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"Un sapore di ruggine e ossa" di Jacques Audiard, questione di feeling (fisico)

NAPOLI, 4 OTTOBRE 2012 - Sorprende all’improvviso, come il guizzo di un’orca in un immenso acquario. Il cinema di Jacques Audiard richiedo un approccio lento, percettivo, meditato: eppure, su di un impianto realistico di grande immediatezza e di ritmi dilatati, s’innestano – senza stonare – improvvise note liriche, ralenti, giochi di luce, insospettati parallelismi interni. Così, Un sapore di ruggine e ossa, discutibilmente escluso dal Palmarés del 65° Festival di Cannes, evita di diventare stucchevole paccottiglia sentimentale da malriuscito mèlo. Ma come evitare la stucchevolezza, non meno sgradevole, di uno stile che, dopo il deflagrante Il Profeta, è diventato così peculiare da cominciare ad accarezzare lo stilismo? La risposta risiede nell’interpretazione dei protagonisti: Marion Cotillard (Stephanie) e Matthias Schoenaerts (Alì) riescono ad infondere una straordinaria e credibile carica umana ai propri personaggi, duettando ad ogni tipo di distanza: dal corpo a corpo di un amplesso, alla glaciale e sofferta distanza di una telefonata; dalla complicità di un sms, allo sguardo non ricambiato dal finestrino di un furgoncino.

Stephanie è un’istruttrice di orche, con una liaison sentimentale di cui non pare troppo convinta ed una forte carica sensuale. Ali ha un figlio di 5 anni e pochi orizzonti; va a vivere dalla sorella ad Antibes. S’incontrano una sera in discoteca: lui fa il buttafuori, lei balla con gambe da urlo, ma subisce un piccolo incidente. Dopo averla riaccompagnata a casa, si separano. Quando si reincontreranno, la vita di lei è tragicamente cambiata. La vita di lui, più lentamente, cambierà.

Quello di Audiard è un cinema che riesce ad essere terribilmente fisico, quasi brutale. La macchina da presa che indugia sulle gambe di Stephanie, mentre Ali la riaccompagna a casa, riesce alla lunga come una sorta di profezia del dolore, ma allo stesso tempo esprime quella fisicità quasi animalesca, vitale, che anima Ali. Di contro, la Cotillard ha una verve carnale di somma eleganza: i gesti controllati con cui domina le orche, il rituale dell’imbellettatura prima di avere il primo rapporto con Ali, la grazia sospesa con cui si destreggia nell’ambiente spigoloso degli scommettitori clandestini e di lottatori, ne fanno un angelo dalle protesi di titanio. Come fosse un graduale e calibrato impatto dionisiaco, il film si prospetta quale morbida collisione, ed infine accomodamento, di due corpi: l’uno con l’altro, ciascuno con la rispettiva anima. Ali arriverà a disciplinare, quasi a sublimare la propria epidermica istintività fisica, convogliandola nella protettività del ruolo di padre e nella propria carriera agonistica. Stephanie, mutila nel fisico, recupererà attraverso lo spirito la libertà del corpo che le pareva impossibile, e con essa la voglia di vivere. [MORE]

Se un fuoco emotivo anima la recitazione di entrambe i protagonisti, sembra che Audiard faccia del proprio cinema una sorta di sacerdozio. Innesca riti – come la danza solitaria di Stephanie sulla sedia a rotelle, inizio del recupero della propria identità scompaginata dal nuovo rapporto del fisico con la mente, ma anche la parola d’ordine con cui Stephanie ed Ali s’intendono sugli appuntamenti per fare l’amore; consacra luoghi – dalla discoteca, tempio che Stephanie deve violare anche nell’impossibilità di ballare, al mare, fonte battesimale in cui Ali depone la donna per il primo bagno che li avvicina; fa della lotta, a cui si dedica il protagonista, la trasposizione laocoontea di un dramma morale, con i corpi che si avvinghiano con le stesse torsioni patetiche con cui Ali si divincola dalla propria violenza di genitore e dalla propria sterilità emotiva di sciupafemmine. C’è una profondità psicologica misteriosa, in questi scontri ed incontri, in queste esistenze mutanti, da far pensare ad una sceneggiatura di Eric Rohmer, tradotta con la virile regia di Michael Mann. In anni recenti, probabilmente, qualcosa del genere si è vista con il Philippe Lioret di Tutti i nostri desideri, ma soprattutto dell’altrettanto carnale Welcome, in grado di lambire la fluida, sfuggente poesia di un romanticismo così disperato, così intimo, così materiale.

A fronte dello svolgimento, di questo caos controllato, la soluzione del finale appare forse frettolosa, edulcorata. In questo si misura la distanza che separa Un sapore di ruggine e ossa dall'ascesa irredenta de Il Profeta: nella volontà di essere, a tratti, "saporito". Una poetica del corpo che per fortuna, per ora, non è ancora poetica della corporeità. L'auspicio è che Audiard non diventi, davvero, regista per le masse.

Titolo originale: De rouille et d'os
Regia: Jacques Audiard
Interpreti: Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Armand Venture, Céline Sallette
Distribuzione: BIM
Durata: 120'
Origine: Francia/Belgio 2012

(in foto: una scena del film)


Antonio Maiorino