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Un giorno all'improvviso, intervista a Ciro D'Emilio: "Una storia semplice con emozioni universali"

Campania: provincia, periferia. Antonio (Giampiero De Concilio), 17 anni, i suoi sogni non li ha mai davvero messi al centro: costretto a prendersi cura della madre Miriam (Anna Foglietta), dolce ma problematica, il giovane vive tra una responsabilità filiale quasi schiacciante ed il tentativo di sbarcare il lunario nel mondo del calcio. Il padre, poi, è fuori gioco: li ha abbandonati quando lui era molto piccolo, lasciando a Miriam l’ossessione logorante di ricomporre la famiglia. All’improvviso, un’occasione: un provino per il Parma. Se la cosa andasse in porto, Antonio potrebbe finalmente partire con la madre e cambiare vita, a dispetto del cauto scetticismo dell’assistente sociale. Altro che fuga per la vittoria: serve la vittoria per una fuga.

Approdato in sala di recente (29 novembre), Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio, classe ’86, aveva già conosciuto la propria ribalta nella sezione Orizzonti di Venezia75. Poi, ancora i riflettori puntati di vari festival – tra cui Annecy e Montpellier – ed il buon riscontro di pubblico. Abbiamo incontrato il regista per farci raccontare qualcosa in più.

ANTONIO MAIORINO: Un giorno all’improvviso ha vinto alla 75esima edizione del Festival di Venezia il Premio di Critica Sociale – Sorriso Diverso. In cosa trovi che l’adolescenza del protagonista Antonio sia diversa dalle altre?

CIRO D’EMILIO: c’è un dialogo nel film che sintetizza il paradosso legato all’età di Antonio. Rivolgendosi alla propria fidanzatina, il ragazzo le dice di non avere tempo per lei e di non potersi prendere cura di lei. Lei risponde: “Antò, noi abbiamo 17 anni!”. Ed Antonio, significativamente, ribatte “io non me ne sono mai accorto”. Ecco, Antonio non sa cosa voglia dire avere 18 anni ed essere un adolescente. Si è ritrovato ad occuparsi di sua madre con una responsabilità spesso demandata a persone più mature. È proprio prendersi cura della madre, con un amore così incondizionato, che lo differenzia dai suoi coetanei.

Hai definito la storia di Un giorno all’improvviso estrema e radicale. Allo stesso tempo, però, c’è una profonda credibilità degli spazi del vissuto. Come si legano questi due aspetti contradditori?

Siamo stati abituati ad un cinema molto più edulcorato e spettacolarizzato. Accontentare il pubblico e non farlo riflettere ha portato spesso ad un effetto contrario: l’allontanamento dello spettatore da tematiche collegate al sociale, alla politica, ai nostri giorni. Questo film s’inserisce all’interno di un filone di altri colleghi, una sorta di Nouvelle Vague, che ha l’urgenza di restare con i piedi attaccati al territorio, alle piccole realtà che poi diventano grandi perché possiedono valori universali ed archetipici. In questo caso c’è l’amore materno, come in Manuel di Dario Albertini, o il rapporto tra periferia ed amicizia, come in La terra dell’abbastanza dei Fratelli D’Innocenzo. Anche se con stili e punti di vista diversi, sono tutti film che hanno un comune denominatore: il tentativo di voltare pagina rispetto a quel tipo di cinema che ha allontanato per anni il pubblico dalle sale, provando piuttosto a far provare emozioni semplici, nel valore più alto di questo termine. Ho voluto raccontare una storia “semplice”, attraverso la complessità dei sentimenti: era il mio modo di trasformare una storia di provincia, apparentemente lontana dai grandi centri, in qualcosa di universale.

Hai avuto modo di citare in queste settimane alcuni autori stranieri che in qualche modo ti avevano influenzato: il Ken Loach di Sweet Sixteen, l’Abdetillaf Kechiche de La Schivata, i Fratelli Dardenne de L’Enfant. Mi aveva colpito l’assenza di autori italiani, ma ora mi stai parlando addirittura di un filone di giovani cineasti. Oltre a condividere qualcosa con questi ultimi, te la sentiresti di indicare quei valori cinematografici  che meglio rappresentano inconfondibilmente te, Ciro D’Emilio?

La spontaneità, l’onestà intellettuale e la semplicità. Siamo autori giovani che hanno urgenza di raccontarsi con un pubblico che sappia emozionarsi ed a cui lasciare uno spazio di rielaborazione dei propri pensieri. Ho cercato di fare qualcosa di molto mio e personale: ho bisogno di stupirmi sia con la storia che racconto, sia nel rapporto con gli attori, sia con tutto il processo creativo, ossia il montaggio ed in generale il lavoro sul set. Non conosco personalmente Dario Albertini ed i Fratelli D’Innocenzo, ma c’è una coincidenza bellissima che autori di diversa estrazione e provenienza che hanno accomunato pareri e reazioni della critica e di un pubblico sempre più vasto.

C’è un fermento di idee indiscutibile, ma non è chiaro se la partecipazione delle produzioni prima, e delle distribuzioni poi, sia sempre convinta e puntuale. Cosa serve al cinema italiano per auto-promuoversi?

Siamo una generazione che deve mantenersi in contatto: per troppo tempo gli autori sono stati individualisti ed hanno portato avanti le proprie ricerche scontrandosi col sistema cinematografico italiano. Io invece penso che insieme si sia più forti e si possa fare la voce grossa per  far capire chi siamo e cosa vogliamo raccontare. Fa bene al cinema italiano innanzitutto il non calpestarsi i piedi gli uni con gli altri, poi l’aiutarsi, il condividere le gioie delle proprie opere. Personalmente, ho dato vita ad una rivista che si chiama Opere Prime, due anni fa, con un focus sugli autori emergenti; ho creato il Pitch in the Day, un evento incredibile in cui gli autori emergenti incontrano i più grandi produttori italiani: dalla Ray a Sky, dalla Lucky Red a Fandango e tanti altri.  Tutto questo sta cambiando la vita a dei ragazzi che dal nulla, con delle storie potenti, riescono ad incontrare in un luogo fisico dei produttori che normalmente non hanno né il tempo né l’interesse di trovare nuove storie e nuovi autori. Ho sempre avuto questa idea: preferisco fare il giro più largo, per la tangente, ma raccogliere insieme a me tutta una generazione di nuove idee e nuovi volti per rinnovare il linguaggio ed il cinema italiano.

Cito spesso una dritta ripetuta da certa gente che afferma di  saper scrivere bene le recensioni: “in una recensione bisogna usare meno aggettivi possibili”. Se t’inondo di aggettivi definendo il tuo stile “secco, minimale, realista”, come mi rispondi? Cos’hai congegnato a livello dei movimenti della macchina da presa?

Ero sempre stato convinto del fatto questo sarebbe dovuto essere un film girato con tale punto di vista. Già nella sceneggiatura c’era una scelta estrema: che il protagonista fosse presente dalla prima all’ultima scena. L’ha fatto appunto Ken Loach in Sweet Sixteen, e siamo partiti da lì. Poi c’era la voglia mia, estrema, di dare allo spettatore questa possibilità: di non staccarsi mai da Antonio. C’era però un grande pericolo: che diventasse tutto molto claustrofobico, che la visione risultasse indigesta. Insieme al direttore della fotografia ho studiato tutto un sistema legato alle lenti e agli obiettivi, ma anche relativo ai colori ed alle location, affinché tutto potesse essere performante sia a livello di profondità di campo, sia a livello di spazio in generale. Una delle cose che mi è stata fatta notare del film è che c’è una modulazione di movimenti nello spazio che riesce ad evitare la piattezza pur restando sempre sul personaggio. Bisogna darne atto anche alla grande capacità di professionisti giovanissimi come Salvatore Landi alla fotografia, Antonella Di Martino alla scenografia e Rossella Aprea ai costumi. Ma vorrei citare anche il suono, perché mai nessuno lo fa: con Daniele De Angelis l’abbiamo studiato sapendo che film volevamo fare, ossia un film in cui non avremmo utilizzato campi lunghi, perché l’obiettivo era di raccontare i volti e non i luoghi. Si è trattato di una ricerca estrema, ma precisa, che ci ha fatto arrivare sul set con idee molto chiare.

Hai quindi trovato pieno sostegno nella troupe tecnica, e pare che il pubblico recepisca in qualche modo questa coerenza creativa, questa chiarezza d’idee. 

I produttori hanno creduto sin dall’inizio in questa mia cifra stilistica, che un po’ assomigliava, appunto, a certo cinema dei Dardenne e di Kechiche, mentre a livello drammaturgico si rifà a Ken Loach, ma che poi si è concretizzato in una visione personale. Se vai a paragonare le nostre opere col bilancino, troverai le differenze. Un autore è sempre diverso e nella sua diversità c’è la bellezza. La prova del nove, poi, resta la sala: da Venezia in poi è stato un successo, e questo mi rende felice.

Anche se il focus, come dicevi, è tutto sui personaggi, ed in particolare su Antonio, ritieni che indirettamente emerga anche una sorta di ritratto d’ambiente dei luoghi del film?

Quando vediamo un film che racconta il disagio, edulcorandolo e spettacolarizzandolo, spesso si perde la cognizione della realtà, e sono le stesse persone che vivono nei luoghi rappresentati a non riconoscersi. Io ho cercato di ripristinare il contatto con la realtà, mostrando senza filtri i personaggi che li vivevano: attraverso i loro occhi ed i loro volti li rimandi ad un universo vicino al tuo. Le periferie sono dovunque, e da questo punto di vista si condivide un vissuto molto vicino allo spettatore.

Sembra che Antonio e la madre abbiano dei volti puliti, ragione in più per lo spettatore per sentirli vicini. Ci sono, tuttavia, dei momenti del film in cui i due personaggi, esposti alle proprie aree di pericolo, rischiano di “sporcarsi”?

Era proprio il mio obiettivo. Quello che ho voluto fare, diversamente dalla drammaturgia convenzionale, è stato scavalcare completamente il primo atto: a scena due siete già all’interno del conflitto, con la madre che gioca a videopoker ed è collerica, con il padre che caccia moglie e figlio, col figlio stesso che lascia il lavoro per andare a recuperare la madre. Anche se dopo si scoprono lati di luce immensa, gli occhi che brillano di sorrisi fantastici hanno anche delle linee d’ombra ed io non ho mai voluto nasconderle. Sono le stesse che portano Antonio a non essere perfetto, a macchiarsi di un furto, all’estremismo agonistico quando gioca a pallone il giovedì ed interviene duramente sul compagno. Sono cose che avvicinano lo spettatore, perché noi raccontiamo in giro la verità che gli altri vogliono sentire, ma quando ci guardiamo allo specchio, dobbiamo raccontarci un’altra verità. Noi conosciamo, eccome, i nostri lati oscuri, quando la sera posiamo la testa sul cuscino. Ed io ho cercato di mettere subito sul piatto questi aspetti.

Se Antonio e Miriam fossero personaggi reali e stessimo parlando della vita, anziché di un film, certe cose succederebbero effettivamente all’improvviso. Un film, invece, fa delle scelte, seleziona dei fatti: ti sembra che queste scelte preparino le svolte del racconto, o anche nello spazio della finzione le cose succedono all’improvviso?

Entrambe le cose. La mano della sceneggiatura deve essere consapevole di dove portare i personaggi e le loro emozioni. Poi c’è ovviamente la magia del cinema, quella che rende lo spettatore diverso da altri tremila, da altri trecentomila, e quella è imprevedibile: ci possiamo avvicinare quanto vogliamo allo spettatore, ma la sua reazione resterà impalpabile, perché siamo di fronte a singole umanità, singole persone con vite completamente diverse. Questa complessità delle emozioni ha a che fare anche con Antonio. (Potenziali spoiler, n.d.R.) Lui prende continuamente botte ed ogni giorno all’improvviso la vita gli racconta che non è facile: non basta che Antonio racconti a se stesso la propria verità e si dica di non avere 17 anni. Puntualmente, glielo ricorda la fidanzatina; glielo ricorda la madre; glielo ricorda l’assistente sociale e l’intero mondo degli adulti. Tutti ricordano ad Antonio che ha 17 anni, ed un giorno all’improvviso Antonio arriva a capire che è così, con un prezzo molto caro da pagare. Solo a quel punto camminerà verso quella strada cercando di riacquistare la propria età negata.

Visto che ci hai condotti per mano fino al finale, ti chiedo: anch’esso rientra nella radicalità di cui parlavi? È un finale a suo modo estremo?

Proprio oggi mi ha chiamato un conoscente che era andato a vedere il mio film al cinema e mi ha chiesto una spiegazione sul finale. Io gli ho risposto che col finale volevo lasciare delle tracce nel cuore e nella testa dello spettatore per consentirgli poi di rielaborare l’esperienza cinematografica in base al vissuto quotidiano. Il cinema italiano l’ha fatto a lungo ed è qualcosa che dobbiamo provare a riacquisire. Per me, comunque, il finale è positivo: Antonio va per la sua strada, si riappropria della sua età e potrà avere l’occasione di prendersi cura di se stesso, una buona volta – anche se non so se lo farà. Questo è ciò che atrocemente, in maniera ispirazionale, vuole dichiarare il finale. 

USCITA: 29 novembre 2018
GENERE: Drammatico
REGISTA: Ciro D'Emilio
CAST: Giampiero De Concilio, Anna Foglietta, Fabio De Caro, Massimo De Matteo, Biagio Forestieri, Giuseppe Cirillo, Marco Esposito
PAESE: Italia
DURATA: 90'
DISTRIBUZIONE: No.Mad Entertainment


(IN FOTO: fotogrammi tratti da 
Un giorno all'improvviso con Anna Foglietta e Giampiero De Concilio. Si ringraziano Vera Santillo, Maurizio Piazza, l'ufficio stampa di Marinella Di Rosa)


Antonio Maiorino