Estero

#Occupygezi, Dizionario di una Rivoluzione

ISTANBUL, 7 GIUGNO 2013 - Boğaziçi. Il ponte sul Bosforo – quello che collega la Istanbul europea a quella asiatica – sabato mattina protagonista di una delle più belle immagini della Primavera (Bianca) Turca. Con l’inizio degli scontri di venerdì, molti mezzi pubblici erano stati soppressi, per impedire che altra gente raggiungesse Piazza Taksim. Gli abitanti della zona asiatica hanno allora marciato per chilometri, per dare man forte ai loro concittadini / compatrioti, inondando il ponte, che mai aveva visto attraversamento umano di massa prima di allora, se non per manifestazioni sportive.
 
Goccia. “Gezi” è probabilmente la parola chiave della protesta, l’ultimo, minuscolo spazio verde del centro di Istanbul, soffocato dal cemento circostante. Al di là dell’aspetto della salvaguardia ecologica, questo piccolo spazio giocò anche un ruolo fondamentale, per esempio, nel terremoto che colpì Istanbul negli anni ’90, consentendo agli abitanti del centro di allontanarsi dalle proprie case e radunarsi nel più sicuro parco. Ma Gezi è solo la goccia, in realtà, di un vaso di pazienza ricolmo d’acqua. E se Gezi lo ha fatto traboccare, i cannoni ad acqua della polizia l’hanno letteralmente spazzato via. La violenza, improvvisa, spietata, con cui si è tentato di sgomberare il sit-in, i primi gas lanciati, l’incendio delle tende e degli oggetti personali dei manifestanti, ha scatenato l’imprevedibile. Il vaso, dicevo, stracolmo di “minuzie” che da troppo tempo ribollivano.[MORE]
 
Halk (La Rivoluzione di Nessuno). “Halk” vuol dire gente, e in questo caso il termine è puro. Gente, e nient’altro. È impressionante la rapidità con cui si sia spontaneamente indignata, e spontaneamente è accorsa a partecipare. Nel giro di poche ore, la Turchia ha dimostrato di essere un tutt’uno, un unico, enorme vaso traboccante di cui sopra. Uno slogan, su tutti, nato in un secondo, ha accompagnato le proteste in tutte le città della Turchia: “Her yer Taksim, her yer direniş”, ossia “ovunque Taksim, ovunque resistenza”. Quei metri quadrati erano diventati la terra sotto i piedi di tutti i turchi. Un’Halk, dunque, rappresentata da tutti, e addirittura dalle donne velate che sembrerebbero religiosissime (e quindi pro-governo, dato che l’AKP, il partito di Erdoğan, è di matrice religiosa), eppure anche loro, davanti al pericolo di mettere in crisi il loro secolarismo, sono scese in piazza a urlare, a resistere.
Nel pomeriggio di domenica, poi, quando la situazione sembrava fosse (almeno temporaneamente) calma, in piazza a Taksim sono spuntate migliaia di bandiere, di partiti e colori politici, ma su tutto troneggiavano slogan e cartelli dell’Halk. Uno su tutti, in particolare:
 
Biz
AKP’siz dine
CHP’siz Ataya
MHP’siz vatana
BDP’siz kürde
Sahip çɪkarɪz.
Biz halkɪz.
 
Noi
Possiamo badare
Alla religione senza l’AKP (L’AKP è il partito filo-islamico di Erdoğan)
Ad Atatürk senza il CHP
Alla nazione senza l’MHP
Ai curdi senza il BDP.
Noi siamo il popolo.
 
 
Media VS. Social Network. L’altra (ovvia) rivoluzione è stata virtuale, con la netta supremazia dei social network, ormai capaci davvero di cambiare il mondo. A nulla è servito oscurare la protesta in TV, anche perché la resistenza ha poi piegato anche questo subdolo tentativo. La protesta l’ha fatta Twitter (come al solito), con Facebook che lo spalleggiava. Tutto descritto, tutto riportato, milioni di reporter amatoriali hanno registrato minuto per minuto, hanno informato, diffuso, dilagato, fatto arrabbiare, convinto, hanno raggiunto l’ultimo angolo della Turchia, e sono esplosi nel resto mondo. Dall’altra parte, in TV, come nulla fosse, quotidianità, e lo stesso Facebook denunciava la “mancanza” dei media in tempo reale. L’Halk è poi esploso anche contro le TV nazionali, dando loro dei prezzolati-venduti-servi, sotto le rispettive sedi sparse in tutte le città. La stessa TV, nel frattempo, dava voce anche alle prime reazioni del governo, che ha demonizzato i manifestanti etichettandoli come “çalpucu”, dei saccheggiatori. Insomma, mentre l’insistente cinguettio di Twitter spronava l’Europa e il resto del mondo a solidarizzare con Istanbul, le casalinghe della Voghera turca cominciavano forse a cambiare opinione.
 
 
Pinguini. Sotto attacco della satira della rete, invece, la CNN: mentre quella statunitense aveva (già da ore) gli occhi puntati su Istanbul, con collegamenti e aggiornamenti continui, quella turca mostrava un documentario sui pinguini. Nel giro di poche ore, è apparso un fotomontaggio su Facebook, che mostrava un gruppo di pinguini sotto l’attacco dei cannoni ad acqua della polizia, con la scritta “Possiamo avere la vostra attenzione, adesso?”. Altre TV turche trasmettevano sit-com, o parlavano di Miss Turchia.
 
Primavera (Bianca). “Primavera” è ormai un termine in voga, con le rivolte nei tanti Paesi, esplose non moltissimo tempo fa. Ma c’è qualcosa che rende diverse le primavere arabe con quella turca. Il secolarismo. Questo è il motivo per cui mi viene da darle l’aggettivo “Bianca”. In Turchia non c’era la necessità di ribaltare una dittatura, o un potere “di fatto” autoritario. La Turchia è più volte citata come modello per i Paesi islamici, dove da più di cent’anni convivono religione e democrazia. Non mancano certo i problemi, ma di fatto la Repubblica Turca ha pure più anni di tante Repubbliche europee, italiana compresa. È bianca, quindi, perché è preventiva, perché in cent’anni il bisogno democratico s’è radicato, si è sedimentato, e se a distanza di cent’anni (90, per l’esattezza) il secolarismo turco è messo in discussione dai provvedimenti di un governo filo-islamico, la Turchia non ci sta. La Turchia vuole salvarsi, vuole migliorare, non vuole perdersi.
 
Rapidità / Resistenza. Non c’è vera rivoluzione se non c’è resistenza. Immaginate la protesta di Gezi Parkɪ, durata un giorno. “Scontri a Taksim”. Punto. E probabilmente la maggior parte dei giornali stranieri non ne avrebbe nemmeno parlato. “Rapidità” e “Resistenza” vanno insieme, a parte per la coincidenza d’ordine alfabetico, ma anche perché sono stati due elementi essenziali, che forse porteranno a dei traguardi, ma che in realtà un traguardo, importante, lo hanno già raggiunto.
La rapidità dei social network ha fatto sì che in meno di due ore apparissero già post su Facebook in cui si elencavano luoghi d’incontro e orari per manifestazioni in tutte le città turche. Gezi Parkɪ che diventava una foresta. Visti i risultati, ovviamente, dove in tutte le città fiumi di persone hanno invaso le strade, in moltissimi casi pacificamente, in altri con scontri (violenti) con la polizia. E vi assicuro che la mia sorpresa è stata anche quella di constatare che tutti i miei amici, ma perfino i conoscenti, o gente conosciuta per caso, erano perfettamente in grado di raccontare (e quindi raccontarmi) su Facebook cosa stesse accadendo, per quale motivo bisognava scendere in piazza e mostrare tutta la propria solidarietà. Anche da persone, mi permetto di dire, “insospettabili”. Sembravano tutti pronti, tutti sul piede di guerra, in attesa. La vittoria è già qui, nell’unisona voce, che per la prima volta ha “cantato” contro un governo. I nonni turchi di oggi, pure, erano allibiti, che mai, in tre generazioni, avevano visto qualcosa di simile. “La nazione s’è svegliata, era ora! Sono orgoglioso del mio Paese”, commentavano in tanti, con le lacrime agli occhi.
E la resistenza, invece, rende consistente il messaggio. Se non resisti, lasci intendere che il tuo messaggio è passeggero. I turchi, resistendo, hanno fatto capire che il loro messaggio è concreto, è forte, e che per esprimerlo non conta il tempo, può resistere per giorni, per settimane, in eterno.   
 
Riflettori. Quello poi di cui ha bisogno una questione locale sono i riflettori. Sempre grazie ai social network, la notizia è divampata ovunque. La solidarietà non fa chiudere gli occhi, ma piuttosto accende, appunto, i riflettori. E quei riflettori hanno consentito di porre pressioni internazionali all’istante, rimproverando la violenza della polizia turca, l’uso dei gas, portando la parola Gezi all’attenzione dell’Unione Europea e della Casa Bianca, spingendo sulla richiesta di avviare delle inchieste sugli abusi, favorendo probabilmente le (prime) scuse ufficiali da parte di Bulent Arinc, figura di peso dell’AKP.
 
Starbucks & Co. Un’altra accusa è stata mossa alle multinazionali presenti a Taksim e a Beşiktaş, in particolare a Starbuck’s, Burger King e a Mado (una catena “nazionale” di caffè / ristoranti, più che “internazionale”). Con Taksim e Istiklal divenuti campo di battaglia, tutti gli esercizi  presenti in quell’area hanno aperto le loro porte, consentendo a medici volontari di dare la prima assistenza ai feriti, offrendo giacigli per riposare, distribuendo acqua e cibo gratuitamente a chiunque ne avesse bisogno. Bar, club, ristoranti, perfino gli hotel a cinque stelle che dominano la piazza. E perfino le farmacie, che hanno elargito maschere antigas e medicinali, a metà prezzo se non del tutto gratis. Per non parlare degli abitanti della zona, che lasciavano bevande e vivande, spicchi di limone come sollievo dai gas, ai davanzali delle finestre, alla portata di tutti. Tutti, insomma, hanno fatto la loro parte. Solo Starbuck’s, Burger King e Mado, come appena la situazione s’è resa calda, hanno serrato le porte.
 
Subdolo. C’è ancora da capire le ragioni di tanta rabbia. La violenza, sì, ma non solo. Subdoli sono i cambiamenti che, timidamente, Erdoğan tentava e tenta di effettuare. In democrazia, sì, ma giocando sulla morale, colpendo le “zone d’ombra” delle opinioni, insinuando il dubbio, sottraendo con astuzia, lasciando abituare, per poi compiere un passo successivo. Quando i turchi hanno provato a spiegare (a me, occhio straniero) cosa stava accadendo nel loro Paese, si sono ritrovati più volte costretti a dire “lo so che non puoi capire, se certe cose non le vivi”. Nella maggior parte dei casi, il loro biasimo era verso sottigliezze minuscole, ma che loro avvertivano come minaccia, e cercavano di raccontarmi questa minaccia. La loro rabbia nasce per la salvaguardia della loro già precaria libertà. Temono che, a lasciar fare troppo, si finisce di far pendere quella precarietà nel lato sbagliato. Mi sono stati proposti tre esempi, su tutti: il ripristino del velo nei luoghi pubblici, proibito da Atatürk ma ripristinato per “consentire una maggiore libertà individuale” e “perché le leggi non durano in eterno” (in contrasto con l’operato di Atatürk, che negli anni venti ha effettuato numerosissime riforme che, seppur alcune discutibili, hanno comunque portato la Turchia ad essere quella che è oggi. Ma questa è un'altra storia); il limite orario per la vendita di alcolici, ok, limite che si può trovare anche in molti Paesi europei, ma se messo insieme al repentino bando degli alcolici anche dai festival e la propaganda di bevande analcoliche ritenute “nazionali”, sembra un subdolo gioco per arrivare al divieto assoluto degli alcolici; terzo, il richiamo a una coppia turca che si baciava in metro ad Ankara, altro subdolo gioco morale. Esempi effimeri, pare, ma con il loro peso specifico. Tutti questi esempi sono le “minuzie” del famoso vaso di cui sopra: non posso protestare per il velo (mi sento anacronistico), non posso protestare contro l’alcol (mi sembra eccessivo), non posso protestare contro un richiamo a un bacio (sono indignato, sì, ma da qui a protestare…). Ma poi arrivò la violenza. E la fatidica Goccia.

Dino Buonaiuto - Corrispondente dalla Turchia