Cronaca
Trattativa stato-mafia, la Procura di Palermo chiede 12 rinvii a giudizio
PALERMO, 25 LUGLIO 2012 - Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino, Antonino Cinà, Giuseppe De Donno, Marcello Dell'Utri, Nicola Mancino, Calogero Mannino, Mario Mori, Bernardo Provenzano, Salvatore Riina, Antonio Subranni. Sarebbe questo l'elenco dei componenti la camera di compensazione che avrebbe gestito la trattativa tra cosa nostra e gli organi dello Stato, stando almeno alla Procura di Palermo, che ieri ha chiesto per tutti il rinvio a giudizio.
Il principale reato contestato è quello di violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario (articolo 338 codice penale), realizzata attraverso «l'organizzazione e l'esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni».
A dare il via al tutto sarebbe stato, agli inizi del 1992, Calogero Mannino, mosso dalla paura di venire ammazzato come il compagno di partito Salvo Lima. Sarebbe stato proprio l'ex ministro democristiano il primo a caldeggiare l'idea dell'alleggerimento del 41bis.
Dopo Mannino ad entrare in scena sarebbero stati gli uomini dell'Arma dei carabinieri – gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno ed il capo del Raggruppamento Operativo Speciale, Antonio Subranni – ai quali sarebbero state affidate le operazioni “diplomatiche”, cioè il contatto diretto con cosa nostra, avvenuto per il tramite di Vito Ciancimino, che nella ricostruzione della Procura assume il ruolo di ambasciatore duplice, dello Stato quando si fa relatore delle istanze istituzionali presso i vertici di cosa nostra e dell'organizzazione mafiosa quando parla con gli uomini dello Stato, esponendo quelle istanze che poi diverranno note come il “papello”. È a questa fase che si lega l'accusa mossa a Massimo Ciancimino, segretario particolare del sindaco del “Sacco di Palermo”.[MORE]
Se cosa nostra cambia strategia lo Stato diventa più tollerante verso la mafia. Questa è, in soldoni, la richiesta tramutatasi poi in accordo, con il mancato rinnovo di trecento provvedimenti di 41bis da un lato e l'inizio della strategia di “inabissamento” di Provenzano, nella quale a questo punto potrebbe essere lecito ripescare qualche domanda fatta negli anni in merito alla cattura di Totò “'u curtu”, la cui strategia violenta in questo sistema diventa un intralcio al mantenimento dell'accordo.
In questa fase, dicono gli inquirenti, un ruolo viene giocato anche da Francesco Di Maggio e Vincenzo Parisi, all'epoca dei fatti rispettivamente capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e della Polizia, non interessati alla richiesta di rinvio a giudizio solo perché già deceduti.
Nel 1993 si assiste, secondo quanto ricostruito, ad una seconda trattativa (o ad una seconda fase di quella già avviata), dove Salvo Lima e Calogero Mannino sarebbero stati sostituiti da Marcello Dell'Utri, con Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca in sostituzione di Totò Riina e Vito Ciancimino, nel frattempo arrestati. «I due boss prospettavano al capo del governo in carica Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano e Dell'Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura», secondo la Procura.
Inerentemente all'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, l'accusa non è quella mossa agli altri, cioè attentato a corpo politico dello Stato ma falsa testimonianza – ipotesi emersa anche verso l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso e del capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria Adalberto Capriotti – in merito all'aver negato di conoscere l'esistenza dei contatti tra i Ros e cosa nostra e durante l'udienza nell'ambito del processo Mori-Obinu dello scorso 24 febbraio. Per Conso e Capriotti il procedimento è sospeso in attesa della decisione del giudice per le udienze preliminari sul processo ai dodici, considerato il filone principale.
Il procuratore capo Francesco Messineo ha però creato un piccolo “giallo”. Così come avvenuto per l'avviso di chiusura delle indagini, anche in questo caso il procuratore non ha apposto la sua firma sull'atto, limitandosi a vistarlo, un modo per evidenziare una decisione non unanime. Adesso il fascicolo dovrà essere assegnato ad un giudice, che avrà cinque giorni per fissare la date dell'udienza preliminare.
Potrebbe essere questo lo scenario a cui si trovò davanti Paolo Borsellino prima di essere ucciso, anche se altri nomi, ed altre tessere dell'intricato puzzle potrebbero venir fuori nei prossimi mesi. Magari quegli stessi nomi che Nicola Mancino ha minacciato di chiamare in causa durante la telefonata con Giorgio Napolitano.
(foto: wakeupnews.eu)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it/]