Dal Torino Film Festival 41: un cartoon semi-depresso, l'omaggio a Versace e il covidramma al telefono
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Alla 41esima edizione del Torino Film Festival, tra i film in proiezione il 26 novembre alcune note sul tenero e malinconico cartone animato Robot Dreams di Pablo Berger e su Gianni Versace, l'imperatore dei sogni, documentario di Mimmo Calopresti. Dal concorso Non riattaccare, dramma "telefonico" in tempi di pandemia di Manfredi Lucibello
Robot Dreams di Pablo Berger (102’, fuori concorso)
Sogni di cani e robot nella Grande Mela. Dalla New York scanzonata ma anche brulicante di solitudini della graphic novel di Sara Varon, il regista iberico Pablo Berger sviluppa un cartone animato – una volta tanto preferiamo questa espressione a film d’animazione – privo di dialoghi, ma intensamente comunicativo; bidimensionale nella forma, ma capace di contenere più dimensioni del racconto. Dapprima, nel prologo lento, il cartoon è quasi sbilenca commedia indie, in presa diretta sulla vita solitaria di DOG (un cane, in un mondo di animali), tra cibi surgelati e routine televisiva; poi buddy movie, quando il protagonista acquista un robot e ne fa il migliore amico; infine odissea amicale, allorché i due si separano per cause di forza maggiore e cercano di riconciliarsi, frattanto sopravvivendo alla malinconia dell’abbandono. Tanti primi piani di sguardi, anche robotici, e fughe oniriche. Il linguaggio animato è vecchio stile, ma con clamoroso senso dell’inquadratura filmica (campi e controcampi, montaggi paralleli, zoomate, split screen: più una macchina da presa che uno storyboard). La tenerezza e la naïveté rasentano il giocattolo cinematografico per bambini, ma quella durezza esistenzial-urbana, un po’ mesta, rimasticata nell’apparente favoleggiare, è semmai il tipo di poesia semplice alla Chaplin, ideale per monelli un po’ cresciuti. Allucinata e spassosa una danza floreale nel sogno del robot, molto in stile Alice nel Paese delle Meraviglie, citato insieme al Mago di Oz. Niente di meraviglioso o magico, ma difficile non restare toccati dal lirismo basico del cartone, un po’ attapirato ma anche faceto. Si scarta volentieri come una caramella agrodolce.
Gianni Versace, l’imperatore dei sogni di Mimmo Calopresti (70’, fuori concorso)
Versace verace. Così vorrebbe raccontarlo Mimmo Calopresti, in un documentario che parte dalla giovinezza a Reggio Calabria, tessendola come origine mitica – su quelle coste bagnate dal mare di Ulisse, come lo definisce lo stilista – sin dagli sguardi curiosi nell’atelier della madre sarta. Poi si peregrinerà tra Milano, con l’ascesa del marchio negli anni ’70, e l’America dei grandi fotografi, veleggiando su materiali d’archivio, interviste (spicca quella a Carla Bruni, che si presta anche in colonna sonora) e ricostruzioni in docu-fiction. Ecco: le parti recitate, con atmosfere da Nuovo Atelier Paradiso, sanno molto di prologo di fiction televisiva. Quelle da documentario ortodosso, dal canto loro non sembrano funzionare troppo nel taglia e cuci, dando la sensazione di saltare di tappa in tappa, o di toppa in toppa, senza troppa continuità sulla storia di ascesa e tragedia di Versace. Se ne vien fuori con una sensazione di buona sartorialità, più che di alto stile cinematografico; soprattutto, con l’impressione di aver sfiorato in carrellata le rivoluzioni di Versace, più che di averne approfondito la storia. Su di un aspetto, però, s’incide, anche a costo di citazioni insistite: sullo spirito, e in qualche modo, sull’eterna giovinezza del Versace affamato di cultura e bellezza, sempre pronto a rigenerare lo sguardo e lanciarsi in nuove sfide. Può bastare? Forse servirebbe altra stoffa, ma quantomeno – per citare un pezzo dei Negazione nel soundtrack – lo spirito continua.
Non riattaccare di Manfredi Lucibello (90’, concorso lungometraggi)
Due agghiaccianti dettagli farebbero venir la voglia a qualche spettatore di “riattaccare” subito, e lasciar perdere il film di Lucibello: l’ambientazione durante il lockdown (ennesimo film figlioccio della pandemia?) e l’intuizione subitanea che si tratterà, come il romanzo di Alessandra Montrucchio da cui è tratto, di un dramma al telefono. A un capo del filo Irene (Barbarba Ronchi), all’altro Pietro (Claudio Santamaria). È lui ad aver chiamato, in un momento di profondo sconforto, sconfinante in velleità da suicida, nel ripensare alla relazione, naufragata, con lei. È quest’ultima a ripetere il mantra del titolo – non riattaccare – avendo intuito i propositi di autodistruzione dell’ex compagno. Cercherà di raggiungerlo in una corsa automobilistica ad ostacoli. Se da un lato l’infarcitura obbligata dei tanti dialoghi e la cornice pandemica affliggono il film, dall’altro bisogna riconoscere come Lucibello abbia tentato ogni astuzia di sceneggiatura (insieme a Jacopo Del Giudice) per guarire il soggetto dai suoi mali potenziali. Ne accadono di tutti i colori, tra un flashback verbale e l’altro. Anche la macchina da presa diventa una giostra sul viso della Ronchi, impegnata in un tour de force di espressioni per accelerare nelle situazioni statiche. Per chi regge, l’immersione nel melo-thriller tiene incollati. Ma se tanto sadismo verso i personaggi funzioni davvero, s’ha da vedere secondo i gusti.
(in copertina: Manfredo Lucibello sul set di Non riattaccare con Barbara Ronchi e Claudio Santamaria. Fonte immagine: ufficio stampa The Rumors. All'interno: un'immagine da Gianni Versace, l'imperatore dei sogni. Fonte immagine: ufficio stampa The Quality)