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This must be Sorrentino, prendere o lasciare

NAPOLI, 25 OTTOBRE 2011 - Mentre guardavo "This must be the place" di Paolo Sorrentino, ricavandone una percezione positiva, allo stesso tempo maturavo la comprensione piena di tutte le critiche che sono state mosse al film, dell'irritazione di chi non lo ha apprezzato, del fastidio di chi non ha trovato il giusto feeling con un'opera non facile, ma nemmeno impossibile. Un film ambivalente, in primo luogo: perchè la bellezza visiva è allo stesso tempo un invito allo sguardo ed una patina di boria - secondo alcuni, pretenziosa. Ma è come per le persone: non le possiamo cambiare. This must be Sorrentino: prendere o lasciare. [MORE]

Lasciare, come si lascia un luogo: non è sempre la scelta giusta - ce lo insegna il regista. Inseguire una libertà fatua. Quando "il posto delle fragole", forse, il locus degli affetti, anche se meno scintillante riserva il germoglio della propria realizzazione. "Home is where I want to be\ Pick me up and turn me round", canta David Byrne, deus ex machina musicale del film: colonna sonora, autore della canzone da cui è tratta l'opera ed attore in un duetto tanto scarno quanto memorabile con Sean Penn.

E sembra, invece, che tutti partano dalla home: Cheyenne, trucco strambo e precoce, è diventato una rockstar abbandonando casa, ha raggiunto il successo - al punto che Mick Jagger ha suonato con lui: non viceversa - ed ora vive giocado a pelota in una piscina vuota in una super-villa con tanto di cuisine, campando di rendita tra paure infantili, piattezza emotiva ed un rapporto tenero e ludico con la moglie. Tony, fantomatico fratello di Mary - adolescente dark amica di Cheyenne - è partito da casa, alla ricerca di non si sa cosa. Aloise Lange, ufficiale nazista che aveva vessato il padre ebreo di Cheyenne, è partito da casa, per una landa deserta e gelida degli States, lontano dai cacciatori di ex nazisti. Tra questi Mordecai Midler: una vita, a suo dire, trascorsa tra motel ed attese clandestine in auto, a sgominare in ogni anfratto del mondo i carnefici tedeschi responsabili del genocidio del suo popolo.

Quando il padre di Cheyenne muore, la rockstar - che non gli parlava da trent'anni, nel timore che il genitore non gli volesse bene - s'improvvisa detective, sulle tracce di Lange, per portare a compimento l'ossessione del padre: trovare il suo aguzzino di Auschwitz. In mano un diario del defunto, con gli appunti - anche grafici - di una ricerca estenuante ed infruttuosa; un immancabile trolley, strascicato con passo leggermente dinoccolato; le chiavi di un pick up nero, prestato da uno sconosciuto businessman incontrato in un ristorante. Parte un viaggio nel nulla, verso una vendetta tiepida: lontana dalla home, o forse ineluttabilmente verso quest'ultima.

Già, perchè Cheyenne sembra tutto fuorchè l'icona della trasgressione: l'eroina, da giovane, la sniffa, non la inietta nelle vene - perchè odia le siringhe; ha sposato una lavavetri (Frances McDormand), a cui è fedele da 35 anni - ed anche durante il film potrebbe tradirla, ma si rifiuta: perfetto maritino; ha lasciato il padre non per protesta, ma per paura di non essere amato; spinge Mary a fidanzarsi con il commesso di un supermarket, incontro impossibile di due ragazzi tristi ed ordinari; sembra più a suo agio quando prende il te' con una vecchietta che quando imbraccia la chitarra e canta; beve continuamente il succo, perchè ha chiuso con gli alcolici; ha una piscina, ma non l'ha mai riempita; ha sensi di colpa per aver infranto involontariamente due nidi familiari, trascinando con le proprie canzoni due giovani fan nella spirale dell'angoscia e del suicidio - ne visita ancora le tombe. Tutto pare la quintessenza della ricerca di stabilità, non dell'on the edge della rockstar.
La paura: quella di non essere accettato. Il desiderio: home, o anche, se preferite, the place. Cheyenne si è fermato all'adolescenza perchè nessuno gli ha detto, adolescente, che andava bene così: col trucco, con l'aria dark-pop, con le ambizioni scomode del cantante depressive mode.

Allora, perchè disprezzare Cheyenne, così infantile, dal fondo così umano, così accostante nonostante la hall of fame? Il problema, per spettatori e critici, è stato, semmai, odiare Sorrentino: non digerire una sceneggiatura che fa avvitare il personaggio su se stesso, esasperandone i vezzi e l'atarassia fino alla caricatura; non sopportare gli scambi di battute apparentemente stucchevoli, che strappano un sorriso dal prezzo sgradevole dell'artificiosità ad ogni costo; non abbracciare la regia bollandola come compiaciuta, nel dipanarsi di una mostra fotografica di saturazioni raggelanti, perfino esibizionistiche, piuttosto che in una storyboard di sequenze che conduca lo spettatore lungo i sentieri del viaggio interiore di Cheyenne. Capisco tutto, e non biasimo se "non si fa amicizia" col film.

Ma Cheyenne è nato per avvitarsi su se stesso: Sean Penn ha colorito il personaggio al di là delle stesse indicazioni di Sorrentino, com'era prevedibile e come si legge dalle stesse interviste del regista. E ha fatto bene: un Cheyenne diverso da così non sarebbe altrettanto indimenticabile, non sarebbe il place cinematografico e caratteriale di partenza di un road movie. Non sarebbe, nemmeno, il protagonista di tante scene gustosissime, se solo si abbandonasse la diffidenza. E va abbandonata, per una ragione semplicissima: è un film grottesco, lo si dica una volta per tutte. Non si può pretendere di non essere spiazzati di fronte al grottesco; non si può pretendere di schivare le esagerazioni; non si può pretendere che la chitarra solista dell'episodicità ad ogni costo faccia la voce grossa rispetto a quella ritmica.

Così come la straordinaria performance di Sorrentino alla regia e quella non meno folgorante di Luca Bigazzi alla fotografia, non possono diventare "muscolarità" ostentata quando sono artisti nostrani a farlo, mentre sono "arte" quando a cimentarsi sono David Lynch o Peter Greenaway. Anche perchè, tra i vari Wim Wenders & co. che si sono citati nella disperata ricerca di influenze stilistiche, Lynch è l'unico nome spendibile con sicurezza, e precisamente quello di "A straight story". Per il resto, in questo dramma grottesco disseminato di humour a tratti nero, vien da pensare ai Coen, in bianco, però, visto il finale meno desolante. L'uscita di Cheyenne dal camper-casupola di Lange, con voluta ellissi intermedia, ricorda quello del killer Javier Bardem in "Non è un paese per vecchi", quando si congeda da una famigliola con camera fissa dall'esterno ad attenderlo, senza che sia dato sapere allo spettatore cosa sia successo con esattezza dentro.

Un ultimo corto circuito, mi sia consentito. Cheyenne - che è già un nome indiano, ispirato al gruppo Siouxsie and Banshees - carica un indigeno americano che fa autostop e lo lascia nel mezzo del niente, con un campo lungo dell'indiano che si allontana. Due minuti dopo entra nella casa di Lange spaccando il vetro di una finestra: come l'indiano del film "Qualcuno volò sul nido del cuculo" di Milos Forman. Coincidenze? Troppe. Perchè il film è tutto su questo: essere accettati nella propria libertà dolorosa, una libertà che fa male, che è paura e desiderio allo stesso tempo, un place che sia movimento e che sia fissità, un viaggio interiore che sia ritrovare il "non viaggio", il restare. Cheyenne dice: "odio i viaggiatori". Preferisce i turisti, spiega. La differenza? Il viaggiatore non ha place, il turista si, e l'abbandona solo momentaneamente.

This must be Sorrentino, allora: prende o lasciare, ripeto. Ed io prendo: finchè da prendere c'è anche una fotografia da suspense visiva imprevedibile, perchè consumata sul filo di un frame dalla bellezza che si può autogenerare in ogni momento; prendo anche la colonna sonora di David Byrne, effetto vedo non vedo, anzi, sento non sento, nel passaggio dal formato canzone al formato soundtrack; prendo uno Sean Penn sul quale non c'è più nulla da dire. C'è solo da prendere, c'è solo da accettare un place dello sguardo bellissimo, senza metti termini.

 

Antonio Maiorino