Cultura e Spettacolo

Teatro di Calabria, lo scetticismo di Trilussa e l’irrequietezza di Pascarella in scena

CATANZARO, 3 OTT.- Raggiungiamo il centro storico di Catanzaro e con piacere ci lasciamo sorprendere dalla vivacità, che di domenica latitava da troppo tempo. Merito anche di chi ha organizzato la rassegna #ScopriCatanzaro, quattro giorni ricchi di eventi che hanno portato centinaia di persone a visitare, con l’ausilio delle guide, musei ed opere d’arte all’aperto, e a partecipare a spettacoli, seminari e caccia al tesoro.

All’interno di questo cartellone il recital a cui vogliamo assistere. ”L’arte del quotidiano. Trilussa e Pascarella”, realizzato dal Teatro di Calabria.

Troviamo parcheggio con difficoltà, ma ciò ci consente di godere di una piacevole passeggiata sul corso. Nel tratto finale, il Complesso Monumentale del San Giovanni ci appare imponente. Varchiamo il portone in legno massiccio e tutto sa di storia, profuma di arte. Dalle pietre più antiche, posate per volere di Riccardo il Guiscardo nella seconda metà del Mille, all’ultimo restauro poco prima del Duemila, queste mura hanno visto soldati, frati e carcerati, prima di essere consegnate definitivamente alla città come prestigioso luogo di arte e cultura. Oggi tutte le sale interne sono occupate da 172 opere di Marc Chagall. Formano la mostra “Chagall. La Bibbia” che ha attratto negli ultimi mesi migliaia di visitatori.

Noi l’abbiamo visitata nei giorni scorsi, ci dirigiamo quindi nel chiostro, la casa del Teatro di Calabria nei mesi estivi. Siamo fra i primi ad arrivare e la dolcezza di Gulia ci accoglie mentre esibiamo il Green Pass. Ci accomodiamo nelle prime file e assistiamo al lento ma costante  fluire del pubblico che riempie tutti i posti disponibili.

É il professore Luigi  La Rosa, vicepresidente e autore del Teatro di Calabria, a prendere la parola per introdurre lo spettacolo.

“Questa sera ascolteremo alcune liriche di due poeti dialettali. Dialettale non significa certo inferiore alla poesia nazionale; basta ricordare che l’opera più importante del secondo millennio scritta da un italiano è la Divina Commedia di Dante, nel fiorentino dell’epoca, un dialetto appunto” chiarisce il professore, che poi spiega “quello in questione è il romanesco, l’unico fra quelli che si parlano ancora oggi in Italia che sia comprensibile in tutte le regioni. Ciò è dovuto al Pontefice Leone X, Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, che intorno al 1530 porta a Roma da Firenze l’amore per l’arte, per la cultura e introduce la lingua fiorentina in Vaticano, facendola così diventare internazionale e, a poco a poco, la lingua parlata in tutta la città”. Presenta quindi i due poeti:” Trilussa, anagramma di Salustri, e Cesare Pascarella, i due poeti più grandi dopo Giuseppe Belli. Siamo in una Roma borghese, popolana ma con una sua finezza particolare, a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900. Metteremo a confronto la poesia agrodolce del primo, che illustra la società con guizzo intelligente, una carica di ironia e tono scanzonato e beffardo, e quella di Pascarella, di tenore abbastanza diverso. Un uomo pervaso da irrequietudine assoluta, con una cifra di amarezza marcata, un maggiore pessimismo nei riguardi della realtà e una vista sfiduciata sul mondo”.

A render  vivi nella mente di chi assiste i concetti espressi dal professore e a portarli alla riflessione, sono:

Marta Parise che interpreta “L’onestà di mi’ nonna”, “A chi tanto e a chi gnente”, “Er buffone” e “Anniversario”; confermando tutte le qualità attoriali e la verve che abbiamo imparato a conoscere nella sua Mirandolina.

Mariarita Albanese, “Acqua e vino”, “Er ceco” e “Li princìpi”; un’altra prova maiuscola che ottiene grazie alla consueta cura dei minimi dettagli e alla particolare attenzione sulla pronuncia di un dialetto che non è il suo.

Anna Maria Corea, “La politica”, “Come fu che non presi moje” ed “Ecco er fatto”; è una bella sorpresa per le sue doti satiriche, sottolineate più volte dalle risate del pubblico. Ne avevamo sempre apprezzato le qualità nel ruolo del coro o delle Erinni nelle tragedie, non conoscevamo questo gradito aspetto attoriale.

Salvatore Venuto incanta tutti con un monologo di venti minuti, una sintesi de “La scoperta de l’America” di Cesare Pascarella. Ci porta tutti nel suo mondo, ci affascina. Stimola il nostro pensiero a tal punto che non ci distrae neppure l’improvviso suono di un cellulare. È sempre un privilegio assistere al suo ingresso in un personaggio che arriva fino alla perfetta identificazione.

Il pubblico, con il suo alto gradimento a scena aperta e alla fine, dimostra di amare un teatro che nutre. Di sentire il bisogno di ridere, ma di non voler rinunciare mai al profondo significato che un’opera di qualità porta con sè. Grande merito va al Teatro di Calabria che, nel corso degli anni, ha contribuito alla formazione di un folto numero di persone che non può fare più a meno di seguire le opere che mette in scena.

Saverio Fontana