Sponde, intervista alla regista Irene Dionisio: "Lampedusa, più di un'emergenza. Vi spiego"
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Sponde, intervista alla regista Irene Dionisio: "Lampedusa, più di un'emergenza. Vi spiego"

giovedì 10 agosto, 2017

Sponde di Irene Dionisio è stato proiettato di recente nella rassegna Remix. Cinema, cultura, migrazioni al Kino di Roma. Ne abbiamo parlato con la regista, lambendo le sponde di Lampedusa e della Tunisia, in una riflessione aperta su di un tema di scottante attualità.

Molte storie restano anonime. Alcune naufragano, forse con troppo clamore, nei media. Altre ancora, sul punto di restare solo un sussurro, sono intercettate da qualche traiettoria cinematografica e diventano un film. Così, Irene Dionisio ha conosciuto e raccontato la storia di Mohsen e Vincenzo. Il primo è un postino di Zarzis, Tunisia, che bazzica le spiagge in cerca di materiali per le proprie sculture, ma un giorno s’imbatte in un corpo: lo seppellisce, scatenando reazioni nella comunità di appartenenza. Il secondo, di Lampedusa, è un becchino in pensione, che decide di dare sepoltura – anche solo con delle croci da caduti – ai tanti corpi restituiti dal mare dopo i fallimentari tentativi di sbarco dei migranti. Apriti cielo anche lì, e chiuditi mare – perché anche questa forma di accoglienza, mestamente innocua, è oggetto di polemiche. Un giorno Vincenzo riceve una lettera in francese da un mittente sconosciuto, che come lui ha scelto di dare sepoltura ai corpi senza nome arrivati dal mare – questa volta, in seguito alla Primavera Araba. È l’inizio di un’amicizia, un raccontarsi – con la giusta distanza – attraverso scelte difficili in un tempo ancor più difficile. Ne abbiamo parlato con la regista Irene Dionisio, che con Sponde. Nel sicuro mare del Nord aveva già nel 2012 vinto il Premio Solinas Documentario, con quella che allora era ancora una sceneggiatura e che avrebbe poi preso forma alla fine del 2015, per poi fare il giro di festival e rassegne di prestigio – un giro ancora in corso, vista la recente partecipazione a Remix.

A.M: Sponde è stato recentemente proiettato al Kino di Roma nell’ambito della rassegna Remix – Cinema e migranti. Ogni film nasce da un peculiare sguardo sulla realtà. Che effetto ti ha fatto vedere, ri-vedere Sponde mentre quella realtà, ossia quella di sbarchi e naufragi, andava aggravandosi?

I. D: Io non sono stupita, perché la percezione che si ha, anche a causa dei media, è quella dell’emergenza, ma questa condizione dura da 20 anni. Per quasi 4 anni questo film si è inserito nel contesto socio politico già esistente: una finta emergenza che definirei piuttosto una condizione sistemica.

A.M: hai esplorato questa condizione attraverso il vissuto di due diverse comunità: quella lampedusana a quella tunisina. Quali convergenze e quali divergenze hai voluto evidenziare, anche attraverso la resa espressiva del montaggio?

I.D: nel momento in cui ci si avvicina alla comunità Lampedusa ed a quella tunisina è abbastanza evidente che in quella magrebina c’è molto più fermento verso il divenire. A Lampedusa c’era invece una condizione stagnante in cui si combatteva sempre per la stessa cosa senza mai ottenerla, ad un certo punto senza neanche troppa convinzione. Nella condizione magrebina ho sentito invece questo grande fermento, ed infatti nei tre anni in cui ho lavorato lì si è anche arrivati ad una Costituzione. Queste le divergenze. Aspetti in comune sono le ritualità, il ritrovarsi per ragioni religiose: da una parte naturalmente la religione cattolica dall’altra quella musulmana. Poi sicuramente un coinvolgimento molto pieno delle famiglie nella questione migratoria. Da una parte a Lampedusa c’è stata una forte ospitalità, dall’altra famiglie distrutte dalla partenza degli “harraga” (il termine con gli i nordafricani chiamano chi viaggia senza documenti, “bruciando le frontiere”; n.d.R.). Anche quelli che sono tornati hanno creato grande disagio, perché il ritorno era vissuto come una vergogna.[MORE]

A.M: a proposito dell’insistenza sulla ritualità: sembra che Sponde sia pervaso da una vena mistica, l’attenzione agli aspetti religiosi va ben oltre il versante etnografico o antropologico.

I.D: e complesso. Diciamo che un elemento importante per il mio punto di vista è l’utilizzo della musica. Il suono che si sente per tutto il film è la cosiddetta “risonanza di Schumann”, che è la risonanza del Pianeta Terra, semplicemente riportata ad un livello più alto. È un modo per raccontare la religione attraverso un altro tema, quello della necessità, del bisogno: il bisogno di avere qualcuno a cui parlare, in questo caso della tragedia che stiamo vivendo. Una cosa di cui al momento non siamo completamente consci, ma se avessimo uno sguardo “archeologico”, se ci guardassimo più da lontano, capiremmo che stiamo vivendo un genocidio che non stiamo fermando. Su questo siamo impotenti, e la religione viene vista come una richiesta d’aiuto, ma allo stesso tempo la soluzione si trova nella vicinanza di persone lontane, in apparenza, dal punto di vista morale e culturale, nonché geografico. È un lavoro che racconta la distanza, ma una distanza che molte volte si manifesta anche verso Dio, verso chi ci potrebbe dare delle spiegazioni. Il film tratta la questione da un punto di vista molto intimo, ma senza rinunciare ad una parte politica, inserita solo attraverso degli avvenimenti, senza giudicarla.

A.M: ecco, veniamo proprio a quell’intimità: lo scambio epistolare tra Vincenzo e Mohsen, fatto di grande profondità, ma anche di discrezione. Come sei venuta a conoscenza di questa particolare vicenda, attraverso cui, poi, ha raccontato anche frammenti di una storia più grande?

I.D: sono venuta a conoscenza tramite una professoressa di religione con cui avevo lavorato per fare un corso in un istituto. Avevo letto un trafiletto su Vincenzo, poi attraverso un fotografo che aveva fatto un lavoro che si chiamava Sesto Continente, ho letto la lettera di Mohsen. A quel punto, avendo sentito parlare di questo legame, mi sono buttato a capofitto in questo lavoro, sono andato a Lampedusa ed ho cercato di incontrare Vincenzo poi in Tunisia per vedere Mohsen. Dopo questi due incontri ho deciso che si trattava assolutamente del film che volevo fare. Ho scritto la sceneggiatura, ho avuto un primo finanziamento attraverso il premio Solinas e poi sono riuscito a partire per lo sviluppo del documentario, che è durato tre anni. Quanto alle lettere, mi sembrava importante che la lettera principale, la prima, fosse quella che scandiva la fasi del racconto, ed il modo con cui trasformare il racconto in montaggio, in un fatto cinematografico. Il film, infatti, è narrativo, ma con tanti momenti di meta-linguaggio. Alla fine ho scelto l’ultima lettera di Vincenzo per rispondere a quella lettere, perché un film così deve raccontare, ma in maniera sottile. Ho usato i materiali in questo modo anche per accompagnare lo spettatore in una maniera un po’ più semplice.

A.M: il cinema trasforma: cambia la percezione che abbiamo della realtà, quindi interviene sia sullo spettatore, sia sulla realtà; cambia, però, anche… chi il cinema lo fa, perché la realizzazione di un’opera cinematografica è un’esperienza da cui si è in qualche modo riplasmati. Dopo i tre anni di lavoro per Sponde, in cosa ti sei sentita cambiata?

I.D: è vero, ogni film che fai è un pezzo di vita molto grande. Possono essere tre anni, a volte quattro, altre cinque, ed ogni volta sei una persona diversa: sei partito con una modalità ispirata ad un soggetto ed arrivi in un altro modo. È stata un’esperienza importantissima perché l’elemento della migrazione era qualcosa che avevo bisogno di conoscere in maniera più profonda stando sui posti e poi facendo il film per restituire almeno una sensazione. Quando fai cinema è anche perché ti serve per mettere ordine ad un caos che senti dentro di te rispetto a tutta una serie di argomenti, per studiare la realtà andando verso la finalizzazione di un pensiero. Altrimenti ci si perde! è stato bellissimo conoscere la realtà tunisina, sono andato molte volte in Tunisia e ci sono tornata per un altro lavoro. Mi ha spiegato tanto del Maghreb ed ho capito le responsabilità europee su certe dinamiche, sui residui di un approccio colonialista che ha lasciato la presenza europea. Inoltre ho avuto la possibilità di conoscere Lampedusa come laboratorio politico a cielo aperto con molti degli aspetti contraddittori dell’Italia. C’è una guerra per certi versi anche violenta. Quando mi chiedono dove sia stato più difficile girare, rispondo Lampedusa. Sono arrivata in Tunisia dopo la strage di Charlie Hebdo a Parigi e c’è stata forte tensione, ho vissuto anche situazioni difficili come regista donna. Lampedusa però è stata ancora più straziante, perché sentivo che era il mio Paese, che ne facevo completamente parte e che quelle dinamiche erano provocate anche da me, mi sentivo più responsabile di quanto potesse accadere in un Paese che non sia il tuo. Un’esperienza enorme, ogni persona che gira un documentario dovrebbe scrivere un diario, perché è un altro film ancora!

A.M: girando film a Lampedusa o su Lampedusa, una cosa che succede spesso, una sorta di costante estetica, è quella del sottolineare visivamente l’importanza dell’acqua, anche sotto il profilo simbolico. Vale anche per Sponde?

I.D: una cosa che mi ha impressionato molto a Lampedusa è stata sapere che distasse così poco dalla Tunisia e che in quel piccolo tratto di mare potessero morire tante persone. Mi ha fatto riflettere il significato simbolico del mare, come si dice anche nel film, guardare verso Est, attendere qualcosa, l’orizzonte – ma allo stesso tempo come il mare diventi un ostacolo insormontabile per motivi politici. Lo si capisce anche dalle sequenze in cui ci sono questi ragazzi che viaggiano, guardano il sole, coi volti tranquilli, diretti verso una meta in verità abbastanza sicura: questo aspetto del mare mi ha raccontato come l’elemento naturale venga utilizzato per fini politici anche crudeli, ma in sé è una connessione. A seconda di come vivi una parte geografica, quella parte geografica assume un ruolo. Quel mare, di suo, è innocente.

A.M: Sponde è uscito prima del successo di Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Negli ultimi anni si è quasi creato un filone, o almeno un novero di opere che trattano dei migranti, degli sbarchi, di Lampedusa. Penso anche a Terraferma di Emanuele Crialese, oppure, per restare nel genere del documentario, a Fino all’ultima spiaggia di Fabrizio Basano. Se dovessi raccontare ad uno spettatore che non abbia ancora visto Sponde quale sia l’elemento peculiare che lo rende in particolare il tuo film, cosa gli diresti?

I.D: il tratto distintivo di Sponde è che non è il punto di vista di chi migra, ma è il punto di vista di chi accoglie. Soprattutto, è una riflessione molto aperta. Per me è a metà tra il saggio ed il film. Sono sempre molto contenta perché per me è stato un viaggio che ho cercato di restituire attraverso un montaggio di immagini e di narrazione che cercasse di essere molto evocativo rispetto ad una serie di riflessioni. Sì, forse il tratto distintivo è proprio questo: quello di essere una riflessione aperta, mai chiusa.
 

Paese: Italia, 2015
Genere: documentario

Soggetto e regia: Irene Dionisio
Fotografia: Francesca Cirilli
Montaggio: Alessandro Zorio
Suono di presa diretta: Manolis Makridakis
Musiche: Gabriele Concas, Matteo Marini
Mix Audio: Simon Apostolou
Prodotto da: Ilaria Malagutti per Mammut Film
Davy Chous e Sylvain Decouvelaere per Vycky Films
Luisa perlo per a.titolo

(in alto: dettaglio dell'artwork del manifesto di Sponde; all'interno: fotogramma dal film. Si ringrazia Ilaria Malagutti)


Antonio Maiorino


Autore
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