InfoOggi Cinema

SPECIALE OSCAR 2013 - "Zero Dark Thirty" di Kathryn Bygelow, l'ora X nel buio dell'anima

Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow - La recensione. Dark: ed è il punto zero. L’oscurità: con le voci fuori campo, ora incredule, via radio (“è reale o è un’esercitazione?”); ora lacerate, nel fisico (“non riusciamo a respirare”); ora straziate, nella tragedia, che acuisce, tra pavimenti caracollanti e sfasciume di schegge, lo zenit emotivo di un sentimento anonimo che esplode (“ti amo” – “ti amo”). È l’11 settembre, le comunicazioni dei media si sovrappongono alle richieste d’aiuto: “un areo è caduto sul World Trade Center”. [MORE]Un montaggio sonoro schiantante – nomination agli Oscar 2013 a Paul N.J. Ottosson: di quelli che chiamano “i premi minori”. E l’immagine è eclissata: schermo nero. Perché è un’immagine impressa nelle coscienze, uno spot indelebile ben presente al popolo americano ed al consorzio umano: una sequenza col tempo, forse, diventata semplicemente un buco nero, un occhio senza orbite, svuotato dal pianto, corroso da paura, ossessione, persino dall’umanissimo “odio”. Così inizia, su una tabula rasa nera come una lavagna su cui scrivere col gessetto rosso del sangue, Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow.

Un gessetto rosso come quei capelli, nemmeno troppo curati, di Maya (Jessica Chastain), troppo concentrata sull’idea fissa di catturare – e\o uccidere – Osama Bin Laden: per quanto i colleghi della CIA, additandola come una monomaniaca ossessiva, le intimino di smettere d’inseguire un fantasma barbuto e la invitino a dedicarsi, piuttosto, allo sgominamento dei tanti attacchi delle cellule terroriste, tra Londra e Pakistan, che nel film s’infiltrano dai telegiornali. Per quanto, ancora, le colleghe la invitino ad alleggerire con qualche svago il peso di quell’assillo, di quella missione "mentale", isolante; ma lei, Maya, nel corpo che s’indovina potenzialmente florido di Jessica Chastain, è irremovibile: “Scopare con un collega? non mi sembra proprio il caso”.

Un gessetto rosso, come quel pennarello che Maya usa per scrivere, sulla parete vetrata del proprio capo, i giorni del calendario, tutti rossi, tutti d’emergenza, che trascorrono nell’inattività, nella mancanza d’iniziativa, per quanto lei sia pressoché certa di aver individuato il luogo in cui si rifugia Osama Bin Laden. In che percentuale? Né il 60% dei colleghi più ritrosi, né l’80% dei più audaci; lei non azzarda, non è una gambler, è una donna nella cui testa l’ora X della missione è scattata da 9 anni, ed al capo della CIA, Leon Panetta (James Gandolfini), spiattella il bookmaking senza esitazioni: “Sono certa al 100%, anzi no, visto che il 100% vi fa andare fuori di testa, diciamo il 95%, ma è 100%”. Ed allora, Zero Dark Thirty: mezzanotte e mezzo, nel gergo militare. L’ora in cui nel maggio 2011 scattò il blitz che portò all'uccisione di Osama Bin Laden. Un’ora che nella mente di quella sbarbatella, catapultata dal college alla CIA, era scattata qualche anno prima.

Cinque candidature agli Oscar, così come per The Hurt Locker, per quello che la stessa Bygelow definisce un “reported film”; e che, nondimeno, non ci si può contentare di stanare dai recessi della creatività più intima con il raid critico di definizioni quali “un film dal passo del documentario”, come si è sentito d'interpretare Paolo D’Agostini su Repubblica. Un film “documentato” è diverso da un film “documentario”: sicché, per quanto l’opera si diparta dall’attento lavoro d’archivio dello sceneggiatore e giornalista Mark Boal (compagno della Chastain, nomination anche per lui), il suo sviluppo si alimenta di una cupa sostanza autoriale che travalica la semplice mistione di fiction e reportage, per diventare qualcosa di diverso. È un dramma per frammenti, schegge dolorose della Storia, come The Hurt Locker, e diversamente dal più dimesso e meno disperato Argo: un rilancio della tensione, come confermano quei capitoletti che non sono i titoli di un paragrafo, ma la scansione di un diario segreto, che trapassa dal top secret dei faldoni alle pieghe di un tormento non solamente professionale.

Jessica Chastain\Maya, davvero, è il trait d’union, la coscienza storica che si fa accostante guazzabuglio delle aspettative: spettatrice delle discusse scene di tortura, e poi essa stessa inflessibile nel dirigere i pestaggi degli interrogatori; referente impotente della notizia dell’attentato del terrorista giordano alla collega Jessica (Jennifer Ehle); è lei a prendere le redini delle riunioni, sbottando con incursioni piccate (“Chi è lei?” – “La figlia di puttana che l’ha trovato, signore”), o a dirigere poco formalmente il breathing con i militari della Navy Seal ("Francamente, ragazzi, non avevo nemmeno intenzione di usarvi per questa missione: con il salto, le attrezzature e tutte le vostre stronzate. Volevo buttare una bomba. Ma la gente non credeva ci fosse Bin Laden. Così vi stanno usando come canarini”).

È ancora lei, infine, ad essere strategicamente defilata, sulle spine della suspense come chi guarda, nella magnifica scena dell’attacco al rifugio di Bin Laden, in cui, eluso ogni rischio da military videogame, il montaggio di Dylan Tichenor e William Goldenberg realizza la propria missione drammatica: buio, luce, infrarossi, manipolazione del silenzio, cadaveri come contrassegni delle stanze, il pianto ininterrotto dei bambini islamici, e soprattutto il coagulo circospetto attorno a quel corpo che diventa un totem. L’inquadratura, di sbieco, come un Cristo Morto del Mantegna in Afghanistan, sul viso di Osama che fuoriesce cautamente dalla cerniera del body bag aperta da Maya, è un indimenticabile scioglimento delle azioni di un film sviluppatosi tra pedinamenti, spionaggi ed uccisioni, ma anche del nodo alla gola di una missione come estroflessa dallo spirito stoico e disperato della tenace agente.

IL FINALE. C’era un racconto di Isaac Asimov che s’intitolava Occhi non soltanto per vedere, in cui l’umanità di un futuro remotissimo, aveva rinunciato al proprio corpo per diventare pura energia, in una sorta di compiaciuta onnipotenza, annebbiando il brivido emotivo della propria epidermide nel serbatoio di un ricordo straziato. Nel finale di Zero Dark Thirty, Maya è in un enorme aereo militare, solo per lei. Il pilota – “dovete essere una persona importante” – le chiede dove voglia andare. Ma Maya tace. E piange. Quel buco nero dell’inizio, quelle orbite svuotate del black out visivo dell’incipit, coincide con i suoi occhi, che per anni hanno visto, hanno accumulato indizi, hanno spiato, sono stati l'energia dell'indagine: ed ora, il vuoto, di una liberazione in stile Il laureato, anzi, La laureata. Felice, ma incerta, è “una persona importante”: ma, come nella scena in cui si leva lo chador che la mascherava, e mangia patatine, beve coca cola, ed appoggia sul tavolino le converse, l’onnipotente che ha stanato il mostro è nient’altro che una ragazza, sola, fragile, nel vuoto della stanzone aereo, in cui risuona la solitudine del pianto. Veramente Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow è più di un reported film: è la storia, con la esse minuscola, di una missione divorante, che fa il buio ed il vuoto dentro man mano che fa luce su fatti e personaggi: la storia di un distacco, più che di un attacco.

Titolo originale: Id.
Regia: Kathryn Bigelow
Interpreti: Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton, James Gandolfini, Jennifer Ehle, Mark Strong, Kyle Chandler, Stephen Dillane, Reda Kateb, Chris Pratt, Mark Valley, Mark Duplass, Harold Perrineau, John Barrowman
Origine: USA, 2012
Distribuzione: Universal Pictures
Duarata: 157'



(nella foto in alto: il poster di Zero Dark Thirty; altre foto: scene del film)

Antonio Maiorino