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SPECIALE OSCAR 2013, il bilancio: serve più Django e meno Zio Sam
LOS ANGELES, 26 FEBBRAIO 2013 - Gli Oscar 2013 sono ormai alle spalle, per quanto l’evento abbia sempre degli strascichi sul mercato italiano, consentendo di rispolverare qualche titolo sull’onda della vittoria (Vita di Pi), o di rendere più palpitante l’attesa per film non ancora usciti, ma di certo non particolarmente sotto i riflettori (Il lato positivo). Il tempo dei bilanci incalza, avremmo notato un paio di cose qua e là.[MORE]
UN VINCITORE FAKE – “Equilibrio” è la parola chiave per descrivere i risultati degli Oscar 2013, ma non per decifrarli: il lemma è puramente statistico. È un po’ come quando, a fronte di un campionato di calcio equilibrato, ci si chiede se ci sia stato un livellamento verso l’alto o verso il basso. Noblesse oblige, se i numeri contano, Vita di Pi di Ang Lee va citato in posizione d’onore per la quantità di statuette conseguite: quattro (regia, fotografia, effetti speciali, colonna sonora), più di tutti, ma senza stravincere. La vittoria risicata, precisiamolo subito, non era comunque esattamente preventivata, vista la concorrenza sia di Argo che di Lincoln, per cui il risultato è tanto più lusinghiero. Né si può dire che il sorpasso numerico su Argo sia avvenuto grazie a premi minori: la statuetta per la miglior regia è pesantissima, sia perché sbaraglia un attore con velleità incipienti – e legittime – da regista (Ben Affleck), sia perché supera la concorrenza di un mestierante navigatissimo – che sia visionario o meno, è argomento su cui dividersi – quale Steven Spielberg. Ma soprattutto i tre premi “tecnici” non possono essere liquidati come premi di seconda fascia, perché esprimono l’essenza di un film spettacolare e ben diretto. Tant’è, Vita di Pi consegue un palmares soddisfacente, senza essere un vero vincitore: per numeri, e per sconfitta nella categoria per eccellenza, quella del miglior film.
ARGO E GLI ARGONAUTI SENZA VELLO D’ORO – Argo di Ben Affleck, dunque, si aggiudica la palma di miglior film, a cui aggiunge quella per migliore sceneggiatura non originale e miglior montaggio. Da questa bacheca si trae partito per un discorso che fila: Argo è un film confezionato con diligenza, ma non abbastanza per andare all’assalto della maggioranza numerica agli Oscar. Si tratta, in altre parole, del lavoro che sia stato fatto funzionare meglio, ma più con identità autoriale che con scatti geniali. Né Lincoln è film che possa accontentarsi, nelle ambizioni, del brodino di due statuette (miglior attore protagonista, migliore scenografia); ma, appunto, quelle ambizioni erano in realtà pretese, pretenziosità, per un polpettone che ha tre buoni motivi per piacere, e nessuno dei tre è sufficiente per distinguerlo come masterpiece: 1) fa presa sul pubblico americano per questioni patriottiche; 2) si vale di un protagonista meritevole (vedi miglior attore, Daniel Day Lewis); 3) le ambientazioni sono artigianalmente ben rifinite e credibili (vedi migliore scenografia). Buona rotta per i botteghini, ma non è la road to glory di un argonauta cinematografico.
UNCHAIN THE PULP FICTION – Due statuette per Django Unchained di Quentin Tarantino, per l’ottimo Christoph Waltz e per la migliore sceneggiatura originale. Se leggiamo questo dato aggregandolo alle quattro statuette di Vita di Pi, ma soprattutto osservando come Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow abbia vinto solo l’Oscar per il miglior montaggio sonoro (in tempi non sospetti avevamo segnalato come questo aspetto fosse molto importante nel film), viene un sospetto fondato. I tre film centrati sulla storia americana, sotto forma di trauma da rimuovere (Argo e Zero Dark Thirty) o di epica eziologica (Lincoln), guadagnano, messi insieme, le stesse statuette di due film sfrenatamente fantasiosi, la cui grandiosità non è né documentaristica, né nazionalistica, né ruffianamente impegnata. Si tratta di un valore “pulp”, che raccoglie consenso a pelle per la propria quintessenza hollywoodiana: è giusto che il cinema conservi la propria dimensione spettacolistica, narrativa, visiva, esplosiva, mentre, probabilmente, il cinema implicitamente politico va maneggiato con cura, senza inflazioni e strizzate d’occhio. La fiction è viva, se l’entertainment è intelligente: senza complessi d’inferiorità, senza le "catene" di troppi ricami da reportage o da saggio storico.
OUTSIDER IN, OUTSIDER OUT – I premi a Jennifer Lawrence come migliore attrice protagonista per l’interpretazione ne Il lato positivo ed a Christoph Waltz come miglior attore non protagonista in Django Unchained vanno rimarcate più decisamente rispetto a quelle dei pur bravissimi Daniel Day Lewis ed Anne Hathaway. Per questi ultimi il riconoscimento è semplicemente meritato, per i primi due ha il sapore della consacrazione: Jennifer Lawrence, che incassa il primo simulacro di zio Oscar nella carriera, è ad uno snodo forse decisivo rispetto ad una carriera che sta conoscendo una progressione artistica irrefrenabile; Christoph Waltz, nelle vesti di feticcio tarantiniano, è già inserito, a prescindere da qualsiasi evoluzione successiva, nel gotha dei cinefili come attore cult. Niente da fare per un altro outsider, invece: il visionario Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin, fuori da tutti i giochi. La favoletta sconfitta dalle corazzate - secondo i giudicanti. Ma la verità, a voler vedere un silver lining in every cloud, cioè il il lato positivo, è che alle periferie delle battaglie tra i film più pubblicizzati, tra i "nominati minori", si rinvengono sempre prodotti d'interesse. Il film dell'esordiente Zeitlin era tra questi.
UNA FOTOGRAFIA: EDIZIONE “MISERABILE”? – Dunque, un livellamento verso l’alto o verso il basso? La fotografia della situazione è nei tre premi di Les Misèrables di Tom Hooper, per la miglior attrice non protagonista (Anne Hathaway), il miglior sonoro ed il miglior trucco. Chapeau alla Hathaway, ma è emblematico che non più tardi di due anni fa lo stesso Hooper sbancasse gli Academy Awards con Il discorso del re, che otteneva quattro premi su dodici nomination, e tutti pesantissimi: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista (Colin Firth), miglior sceneggiatura originale (David Seidler). Quello, cioè, che non è riuscito né ad Argo né a Lincoln. Né a Les Misèrables: che d’altronde nemmeno poteva ambire a tanto. Questo film che dura 158 minuti riportando sullo schermo un romanzo dell’800 di Victor Hugo è forse la cartina al tornasole di un’annata sgradevolmente pomposa, con Anna Karenina in testa al drappello dei film vecchi quanto Tolstoj. Con durate esorbitanti, velleità intellettuali e tematiche, o trovate in costume, le produzioni hollywoodiane si sono in parte date la zappa sui piedi: cinema romanzesco e cinema che romanza la storia, nessuno dei due ha sfondato. Ci piace ricordare, in chiusura, l’Oscar come miglior film straniero ad Amour: film cerebrale e sgradevole, anti-estetico, un mattone. Ma senza l’ombra di Zio Sam o di Nonno Hugo, almeno, è un’opera in grado di arrivare allo stomaco, dopo essere passata per la testa: l’amore conta, ed è anche più popolare del pulp.
(in foto: poster di Django Unchained)
Antonio Maiorino