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SPECIALE CHAPLIN: 122 anni fa nasceva il grande mattatore

NAPOLI 16 APRILE - Il XX secolo annovera tra i propri highlights un discorso passato meritatamente agli annali. Curioso, tuttavia, che non si tratti della declamazione di un paladino civile, né di un’arringa di un abile politicante. Il verbo è conservato su di una pergamena ben speciale in 35 mm: la pellicola cinematografica. A parlare è infatti un attore e regista, Charlie Chaplin nel film "Il grande dittatore" (1940),  nei panni del barbiere ebreo che a sua volta – gioco di maschere! – si spaccia per il dittatore Adenoid Hynkel. È il famoso discorso all’umanità, che chiude in maniera toccante e senza retorica uno dei capolavori del cinema mondiale, saltando a piè pari i compartimenti stagni della storia ed assurgendo esso stesso ad un pezzo di “Storia”, punto: non di “storia del cinema”. [MORE]

Nel fare le pulci al capolavoro di Chaplin, bisognerà tuttavia osservare come il discorso “meno invecchiato” nel film non sia quello finale, e giustamente noto – d'altronde Dio è morto, le ideologie pure; bensì quello che Chaplin interpreta vestendo l’inamidata divisa di Hynkel, dittatore della Tomania, in una sfrenata parodia di Hitler. “L’odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo. E finché gli uomini non saranno morti la libertà non perirà mai”, dice il barbiere ebreo in chiusura: chiedere alla Libia. Il discorso-parodia, invece, è straordinariamente attuale per il proprio bestiale non-detto con tanto di contro-coro di applausi a comando: riproduzione pantomimica di un meccanismo animalesco di controllo delle masse attraverso il bla-bla – “ich-uch”, in questo caso – che si sposa bene alla vacuità di leader capobranco, portavoci e relativi pecoroni.

E non che, superficialmente, si voglia virare su di un comico di maggiore immediatezza, evitando lo scontro frontale – scomodo, invero – con l’intenso ma più impegnativo discorso all’umanità. A proposito delle rivisitazioni cinematografiche dell’Olocausto in chiave comica, Roberto Benigni, che a testa bassa cita “Il grande dittatore” ne “La vita è bella”, centra l’obiettivo di un comico che sappia mettere il dito nella piaga: “Ridere ci salva, vedere l'altro lato delle cose, il lato surreale e divertente, o riuscire a immaginarlo, ci aiuta a non essere spezzati, trascinati via come fuscelli, a resistere per riuscire a passare la notte, anche quando appare lunga lunga”. Anche quando appare – permettetemi l’insolenza – “bunga bunga”. Sicché due parole sulla genialità di quell’interpretazione, che d’un tratto getta nella luce del “ridicolo” nani premier quanto dittatori abbronzati, varrà la pena di scriverle, per il 122esimo anniversario della nascita di un genio evidentemente immortale – o almeno, non ancora morto!

Lo si dica subito: uno dei momenti di massima profondità in cui ci s’imbatte è quando Hynkel dice “icht rayna struff mit a ach-uch-ich-ach-uch”. Tradotto: niente. Chaplin riplasma ugola ed apparato vocale in una lingua che non esiste, una glotto-satira del tedesco, irta di esasperazioni gutturali e di aspirazioni – respiratorie, non idealistiche. Perché si tratta esattamente di questo: la comunicazione è denaturata del sostrato semantico, alias del suo “oggetto”, per farsi mera profusione isterica di suoni a cui si giustappone con studiata tempistica l’interpolazione degli applausi. Se è vero, come ha ben osservato Jean Genet, che “il comico è il tragico visto di spalle”, il movimento della mano con cui Hynkel zittisce con grottesca subitaneità le masse – iperbolicamente ibridato a quello di una ballerina di flamenco – riproduce dall’osservatorio decentrato della parodia il meccanismo dell’obbedienza cieca.

“La democrazia fa schifo, la libertà fa schifo, la libertà di parola fa schifo” col contraltare de “la Tomania ha il più grande esercito del mondo” (“io sono io, e voi non siete un cazzo” avrebbe detto Sordi\Marchese del Grillo) è l’incipit che spiana la strada all’escalation dei grugniti, della balbuzie parossistiche, della gestualità da pifferaio invasato, beffardamente culminanti nella voce fuori campo che conclude come Hynkel abbia osservato che “nei confronti del resto del mondo, nutre soltanto intenzioni pacifiche”. Ne vien fuori una satira permeata di acute dissonanze: la gestualità ed il tono si scollano dal significato del discorso, perché l’opera di plagio delle masse si compie attraverso una strategia dell’immagine. Non conta, allora, cosa venga detto: conta da un lato il carisma del politico cabarettista, dall’altro la cecità del cittadino spettatore. Vi ricorda niente?

L’apice della strategia unito all’apice dell’animalesco: un controsenso? Affatto, se si pensa alle espressioni che già usarono i grandi scrittori politici nell’Italia degli staterelli, Machiavelli e Guicciardini, a proposito del modo di tenere “l’imperio” da parte dei principi. Il principe, come il dittatore del Novecento, deve essere metaforicamente sia "volpe" che "leone", utilizzare, cioè, tanto l’astuzia (volpe: la strategia) quanto la violenza (leone: la forza).

Ecco perché, mentre il discorso all’umanità in chiusura de “Il grande dittatore” è da considerarsi a buon diritto un commovente inno di speranza, il discorso di Hynkel risulta piuttosto un lucido e anticonvenzionale trattato di politica in forma non trattatistica: la forma trasversale della recitazione. Potere del cinema che batte il potere del tiranno. Il Mattatore che mette a nudo il re: anzi, il Dittatore.

ANTONIO MAIORINO