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"Source Code", il codice del buon cinema di Duncan Jones
NAPOLI, 27 APRILE - Duncan Jones: segnatevi questo nome. O se preferite segnatevi gli altri nomi con cui è noto il regista britannico: Zowie Bowie o Joey Bowie, lui che è figlio del di David Bowie e della ex moglie Mary Angela Barnett. Il biglietto da visita “anagrafico” già non è male. Metteteci la passione per la fantascienza, di alto livello però (Philip K. Dick), insieme ad una laurea con dottorato in filosofia – l’umanesimo fa bene: Nolan è laureato in lettere – ed il profilo del giovane cineasta è in buona parte tratteggiato. [MORE]
Ah, manca una cosa fondamentale: il cinema. Già col fantascientifico “Moon”, nel 2009, Jones si era fatto notare per l’originalità della sceneggiatura ed una regia capace di fondere visività e visionarietà. “Source Code”, che si appresta ad atterrare nelle sale italiane (29 aprile), ha un’impronta decisamente più commerciale, ma tanto meglio, se nel senso buono del termine: di fruibilità agevole. Senza smarrire – e questo contava – l’acutezza nell’interpretazione del soggetto, la disinvoltura nella gestione dei risvolti narrativi (script di Ben Ripley) e sporadiche intuizioni di buonissimo cinema.
La trama in breve: il Capitano Colter Stevens (Jake Gyllenhaal) partecipa, suo malgrado, al programma “Source Code”, che gli permette di assumere l'identità di un altro essere umano negli ultimi 8 minuti della sua vita. La missione è di rivivere gli ultimi istanti dell'esistenza di Sean Fentress, uno dei passeggeri di un treno per Chicago fatto esplodere da una bomba. Dovrà sfruttare la nuova ed instabile identità, 8 minuti alla volta (a partire sempre dallo stesso momento), per individuare il colpevole ed evitare altre stragi. Un dettaglio: come ci è finito il Capitano Colter in un box semi-oscuro con dei fili attaccati alla testa per il programma “Source Code”?
Un lupo di mare della sceneggiatura italiana, Fabio Bonifacci, diceva che la riconoscibilità di uno script di qualità è nella domanda: “e poi?”. In “Source Code” la domanda diventa un assillo, a partire dal prologo, col Capitano Colter che si risveglia nel corpo di un altro senza avere idea del perché sia su un treno diretto a Chicago. Le tessere del puzzle si comporranno con gradualità, ma la bravura del regista risiede nell’aver aggirato il meccanismo, inviso ad Hitchcock, del “whodunit?”, inserendo la caccia al bombarolo entro un mosaico narrativo più complesso, in cui le questioni da sistemare, tra presente, passato e futuro, oscillano dal mistero che avvolge il programma “Source Code”, alla vita privata del Capitano, fino alla liaison incipiente con la bella passeggera (Michelle Monaghan). Tanta carne al fuoco, ed in novanta minuti circa è cotta benissimo: senza accelerazioni indebite, senza rinunciare alle sfumature emotive – bene Jake “Darko” Gyllenhaal, ma non è una sorpresa – e con implicazioni penetranti sul cinema.
Già, perché chi vorrà godere di un buon prodotto filmico, potrà a buon diritto fermarsi alla superficie di una storia che annoda fili diversi, che sospende a più riprese il proprio scioglimento, che si lascia seguire con estrema scorrevolezza. Ma chi saprà attingere al “codice sorgente” del talento di Jones, non mancherà di cogliere le citazioni dickiane – ma non solo – così affascinanti per la semiotica cinematografica sul tema dell’universo parallelo: il Capitano che s’interroga sull’esistenza dei mondi degli “8 minuti” è più di un sofismo, quando il dubbio si traduce nell’impeccabile visione del protagonista che si ferma con la recente fiamma dinanzi ad una superficie riflettente, rapito fino a voler passare la giornata in contemplazione. Il mondo parallelo del cinema ricostruisce un universo che hai voglia a definire “fatto di impulsi cerebrali”, come i burocrati militari definiscono quello della mente di Colter: i suoi eventi influenzano la fisicità dello spettatore, la sua mente, il suo “universo parallelo” e tangibile, lo invadono. E così nel film, la collisione delle realtà si qualifica, a un tempo, come affascinante espediente diegetico e come riflessione più profonda sul cinema tutto.
Se “Moon” poteva vantare una claustrofobica raffinatezza, “Source Code” è un fiore cinematografico dalla corolla dischiusa, ma non meno profumato: catchy e sottile, immediato e fine. Da Jones, a questo punto, non possiamo che aspettare buone nuove.
ANTONIO MAIORINO