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Smetto quando voglio di Sydney Sibilia, suona bene la banda degli onesti precari

Smetto quando voglio di Sydney Sibilia, la recensione. Chissà come si dice “cavoli amari” in latino. Lo saprebbero, procul dubio, Giorgio e Mattia (Lorenzo Lavia e Valerio Aprea), consumati latinisti. Che, però, consumano l'esistenza a fare i benzinai. È la stessa generazione di precari che si riciclano a cui appartengono anche Alberto (Stefano Fresi), superchimico alle prese con i detersivi (da lavapiatti); Bartolomeo (Libero De Rienzo), genialoide di statistica e finanza che scrocca la grana all’innamoratissima fidanzatina rom, per perderla al poker; Arturo (Paolo Calabresi), peritissimo archeologo passato dagli scavi ai lavori stradali (ed allo scrocco di panini e frittatina dai colleghi); Andrea (Pietro Sermonti), antropologo tradotto in cinquanta lingue che cerca di farsi assumere da un meccanico con una lercia filippica in perfetto romanesco. Sta per accodarsi anche Pietro (Edoardo Leo), ricercatore universitario che ha tra le mani uno studio da premio Nobel, ma si sente costretto a diventare un “ricercato” quando l’assegno non gli viene rinnovato. Il talento non si spreca e a casa bisogna mangiare: altro che “accodarsi”, Pietro si mette a capo della banda di cervelloni per creare una smart drug sul filo della legalità e farsi una barca di soldi. Ma la barca comincia a fare acqua: remano contro una fidanzata sospettosa (Valeria Solarino) ed un boss malavitoso che poco gradisce la concorrenza (Neri Marcoré). [MORE]

 

 

TU VUO FA' L'AMERICANO... - Talento da valorizzare, quello di Sydney Sibilia, giovane salernitano che esordisce con Smetto quando voglio esibendo il piglio d’un autore che difficilmente dovrà sopportare le tribolazioni del precariato cinematografico, se saprà mantenere a tempo indeterminato le premesse di freschezza d’idee, ponderata esuberanza di stile e brillante serratezza di dialoghi anche nei film a venire. Smetto quando voglio, intanto, è una boccata d’aria nel panorama della commedia italiana, da apprezzarsi specie per le scommesse vinte dal proprio autore: maneggiare con cura temi delicati come quelli del precariato e delle legalità senza sfociare nel macchiettismo e deperire nella frivolezza; caratterizzare con spassosa vivacità i personaggi, galleggiando su di una riuscitissima disperazione corale; girare un film tragicomicamente italiano nei contenuti ma con azzardata veste stilistica americaneggiante. La panoramica iniziale su una Roma al neon, tutta luci della città drogata, con una fotografia satura - in cui i primi capelli grigi sono semmai azzurri ed abbondano arredi ed accessori tra il fucsia ed il giallo evidenziatore, dichiara sin dal prologo l’agilità d’una macchina da presa, che in proiezione poco ha da invidiare – se non la fisiologica esperienza – al mestiere d’un Soderbergh (Ocean’s Eleven), se non addirittura d’un David O. Russell (dagli Offspring d’apertura in avanti, siamo sulla buona strada per pareggiare, un giorno, i soundtrack cool come quelli di American Hustle). Né sociologo né hollywoodiano da strapazzo: e non era facile.

...MA SI NAT IN ITALY (PER FORTUNA) - L’italianità, certo, è anche nella tradizione nostrana: il déjà vu, più che con gli inflazionati Soliti ignoti, è semmai con La banda degli onesti, specie quando Pietro\Edoardo Di Leo ed Alberto\Stefano Fresi ragionano su chi altri trascinare nell’impresa criminosa, così come Totò e De Filippo avevano bisogno “dell’artista” per le banconote false, per poi finire con l’imbianchino Giacomo Furia. Ma qui, l’importanza di essere onesti si coltiva ancora con suggestioni d’oltreoceano, piuttosto smaccatamente citate quando, all’idea d’una banda, uno degli interpellati spiffera la suggestione: “come nelle serie tv americane?”.

Fate voi, tra le già leggendarie metanfetamine blu di Breaking Bad e le droghe leggere col tono leggero di Weeds: l’importante è che quella di Sibilia non sia una comicità in serie. Non lo diventa, grazie all’attento lavoro di manipolazione dei registri linguistici che attraversa tutto il film, dimostrando che è oro, anche per le idee, quello che luccica per la sfavillante veste visiva (fotografia di Vladan Radovic): i due benzinai che litigano in latino e masticano il cingalese (perché è dello stesso ceppo del sanscrito); l’esilarante colloquio di lavoro dell’antropologo dal meccanico, che cerca di nascondere la padronanza verbale per non far capire d’essere laureato; l’archeologo che da novello duro della malavita si fa fare un tatuaggio, ma d’un acroterio (elemento decorativo di templi antichi), da buon nerd. Come a dire: i reservoir dogs che abbaiano, ma non mordono. C’è un’inventiva verbale, anche nell’uso di sinonimi e perifrasi (mignotta = donna di lenone), per cui il film rivela tutta l'accorta sottigliezza nel tratteggiare questi hustlers, che proprio non riescono a diventare i nuovi Walter White, restando, variopinti, quel che sono: menti geniali in un paese di cervelli in fuga. 

Smetto quando voglio di Sydney Sibilia, con risata raziocinante ed accattivante veste fluo, s’impone con brio nel panorama della commedia italiana, caricando i propri interpreti così come i propri colori, pur rimanendo nell’alveo d’un affresco sociale che non fa sociologia spicciola, ma costume intelligente.

DATA USCITA: 06 febbraio 2014
GENERE: Commedia
ANNO: 2014
REGIA: Sydney Sibilia
SCENEGGIATURA: Sydney Sibilia
ATTORI: Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero De Rienzo, Pietro Sermonti, Lorenzo Lavia, Neri Marcorè, Stefano Fresi
FOTOGRAFIA: Vladan Radovic
MONTAGGIO: Gianni Vezzosi
MUSICHE: Andrea Farri
PRODUZIONE: Ascent Film, Fandango
DISTRIBUZIONE: 01 Distribution
PAESE: Italia
DURATA: 100 Min

 

 

 

Antonio Maiorino
critico cinematografico - on Twitter