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Silvestro Bressi: "Il Brigantaggio nel Catanzarese"

Catanzaro, 29 maggio 2011 - Con questo ultimo libro, edito da Ursini, e di chiara impostazione antropologica, Silvestro Bressi vuole offrire agli appassionati di storia e di cultura popolare alcune chicche inedite da utilizzare quali spunti di riflessione sul brigantaggio che ha interessato il territorio catanzarese durante il decennio francese (1806-1815) e dopo l’Unità d’Italia. [MORE]

Nella bella serata di presentazione del libro, moderata da G. Battista Scalise e allietata tra l’altro dalla sorniona ironia del cantastorie Otello Profazio, Vito Teti, ordinario di Etnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, ha osservato come spesso gli appassionati di cultura popolare, quale è Bressi, pur non provenendo da ambienti accademici e universitari, riescano a giunger a risultati anche più rilevanti di quelli degli studiosi “per professione”.

Teti, che ha arricchito il libro di Bressi oltre che con la sua presentazione, con un saggio collocato alla fine del volume, ha osservato come , se si obiettasse che questo libro, al pari di altri, si confonde e si disperde nel vasto mare delle innumerevoli pubblicazioni di quest’ultimo anno che vertono sul Risorgimento, se ne dovrebbe anche constatare subito, ad una prima lettura, l’assoluta originalità, che si coglie nella contestualizzazione del brigantaggio nella realtà catanzarese. Infatti, uno degli aspetti più interessanti della ricerca di Bressi, consiste nella sua capacità di mostrare come la vita sociale e culturale, il teatro e la poesia orale, la topografia cittadina e il territorio provinciale siano stati segnati dal brigantaggio. Alcuni testi (come il poemetto di Pietro Bianco) o quelli del “presebbiu chi si motica” o del Carnevale sono documenti inediti e che rischiavano di andare perduti se non fosse stato per le escursioni in paesi e campagne da parte dell’autore. Anche perché da sempre egli è una sorta di custode e divulgatore di tradizioni, nell’organizzare rappresentazioni carnevalesche, nel raccogliere canzoni e ballate, leggende e canti, assieme ai suoi figli, nell’eseguirli e rappresentarli, proponendoli e alimentando forme espressive in via di estinzione.

Bressi rivela in ciò una straordinaria capacità di ascoltare la gente, di entrare in sintonia con le persone che incontra, di farle parlare e riportare le loro narrazioni.
La figura del brigante, oltre a inscriversi in vicende storiche di lunga durata, appare una “costruzione” con la quale si sono confrontati e scontrati ameno due diversi punti di vista di interpretazione del fenomeno. Il primo, la letteratura d’impianto positivista, riprendendo immagini e descrizioni di periodi precedenti, individua nel brigantaggio un comportamento delinquenziale, un dato antropologico dei meridionali, il tratto di una “razza maledetta”, inferiore per caratteri antropologici e fisici e che è condannata per sempre a una primitività che, di fatto, impedisce l’arrivo della modernità al Sud. Il secondo, al contrario, ha rivelato una considerazione positiva, problematica del brigante: nella tradizione orale ( leggende, canti e modi di dire) il brigante è un individuo coraggioso, insofferente alle ingiustizie, è chi si vendica dei torti subiti; è chi sfugge alla fame e dall’oppressione, è un eroe da ammirare e da imitare.

La “guerra di popolo”, come fu definito il brigantaggio, la conquista militare del Sud, l’annessione al Piemonte, l’uccisione di migliaia di contadini, uomini e donne, la lotta feroce, senza esclusione di colpi, tra “piemontesi” e popolazioni locali, e poi l’emigrazione di massa, la distruzione di economie, culture, luoghi, sono state rimosse, cancellate, sottovalutate per affermare interessi localistici e per tentare di separare le regioni più ricche proprio da quelle aree diventate povere proprio a seguito dell’unificazione nazionale.

In questo quadro variegato di posizioni, appare utile pertanto ripartire dai “fatti”, da storie minute e locali, da quelle peculiarità sociali, culturali e storiche che il nostro autore mette in luce.
Mi piace osservare che c’è certamente qualcosa, in questa ricerca di Bressi , che riporta alla mente quell’ “antropologia del restare” di cui è intessuto “Pietre di pane”, il libro in cui Vito Teti definisce la scelta del restare come un’avventura, un atto di incoscienza, e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. L’ “antropologia del restare” ci riporta alla mente la bellissima frase di Nitti: “O briganti, o emigranti”.

E se il meridione post-unitario divenne troppo stretto per i briganti, impossibilitati a “restare”, certamente possiamo dire, parafrasando Mario La Cava, che le loro idee viaggiarono e ancora oggi viaggiano più ancora delle loro gambe. Perché, come asserisce Vito Teti, “se non ti senti prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo, vuol dire che possiedi la libertà del cammino”.

ANNA ROTUNDO