L'Avvocato INFOrma
Sì agli impianti audiovisivi sul luogo di lavoro se c'è il previo accordo sindacale
REGGIO CALABRIA, 15 MAGGIO - Affinché sia possibile l'installazione di apparecchiature audiovisive sul luogo di lavoro è sempre necessario il previo accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 22148/2017; depositata l’8 maggio. [MORE]
Il caso. Il Tribunale competente condannava l’amministratrice unica della ditta Elegance s.r.l. perché aveva installato all’interno dell’unità operativa un impianto di video ripresa composto da due telecamere collegate ad un dispositivo WI-FI, a rete ADSL e a monitor, in grado di trasmettere in tempo reale le immagini filmate, senza previo accordo con i sindacati e senza autorizzazione della direzione territoriale del lavoro, a tutela della libertà e dignità dei lavoratori.
Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, la ricorrente proponeva ricorso per cassazione, con un unico motivo di impugnazione, lamentando l’erronea interpretazione e la falsa applicazione della legge penale (articolo 606, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale), sulla tesi che delle due telecamere, installate presso la unità operativa, una consentiva le riprese all’interno del negozio di scarpe, ed esattamente in una zona adibita ad una specie di magazzino, mentre l’altra visualizzava direttamente le immagini di ripresa relative al luogo ove era situata la cassa di pagamento. In ogni caso, non poteva ritenersi provata la circostanza secondo cui sarebbe mancato il preventivo consenso dei lavoratori all’apposizione delle telecamere. Al riguardo, sosteneva che, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, il reato contestato era ritenuto insussistente nel caso in cui, pur in assenza di un preventivo assenso delle rappresentanze sindacali in genere, fosse comunque riscontrata la presenza di un consenso validamente espresso da parte dei lavoratori interessati. Osservava, infatti, la ricorrente che tutti i testi escussi avevano affermato di essere stati non solo consapevoli della presenza delle telecamere ma soprattutto di aver prestato il loro consenso all’apposizione e al funzionamento delle stesse, con la conseguenza che, in presenza di una riscontrata causa di giustificazione, il fatto addebitato alla ricorrente non sarebbe punibile.
La Cassazione, riteneva infondata la doglianza sollevata dalla ricorrente ribadendo il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza secondo cui «in tema di divieto di uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, sussiste continuità di tipo di illecito tra la previgente fattispecie, prevista dagli artt. 4 e 38, comma primo, L. 20 maggio 1970 n. 300 (cd. Statuto dei lavoratori) e 114 e 171 del D.Lgs. n. 196 del 2003, e quella attuale rimodulata dall’art. 23, D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151 (attuativo di una delle deleghe contenute nel cd. Jobs Act), ». Infatti, secondo il Supremo Collegio, la normativa sopravvenuta manteneva integra la disciplina sanzionatoria per la quale la violazione dell’art. 4 Statuto dei lavoratori recante «Impianti audiovisivi» era penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 38 Statuto dei lavoratori recante «Disposizioni penali».
In altre parole, anche la nuova disciplina imponeva la necessità di accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori affinché si potessero installare apparecchiature audiovisive. Se tale accordo non sussisteva ogni installazione effettuata era da ritenere illegittima e penalmente sanzionabile. Altresì, proseguiva la Corte, lo stesso Garante per la protezione dei dati personali, sul punto, aveva più volte ritenuto illecito il trattamento dei dati personali mediante sistemi di videosorveglianza, in assenza del rispetto delle garanzie di cui all’art. 4, comma 2, Stat. lav. e nonostante la sussistenza del consenso dei lavoratori (cfr. relazione Garante per la protezione dei dati personali, per l’anno 2013, pubblicata nel 2014).
Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express