Cronaca
Roma, aperto il "laboratorio Cosa Nuova". Dagli anni Settanta
ROMA, 5 FEBBRAIO 2012 - Continuiamo il nostro approfondimento su quella che sempre più sembra essere una vera e propria guerra di mafie. Prima di entrare nello specifico, andando a guardare come le mafie – italiane ed estere – si siano insediate nella Capitale fin dagli anni Settanta, è necessario prima fare il punto su cosa sia e quanta forza – criminale ed economica – abbia oggi quella che l'associazione “Libera” nel suo dossier ha chiamato “Cosa Nuova”.
Un bar ed una corda. È da qui che riparte la nostra storia.
Eravamo quattro amici (degli amici) al bar. L'anno è il 2009, siamo a luglio. La Città Eterna si sveglia con uno dei tanti blitz della Guardia di Finanza che mette i sigilli a una decina di locali – valore totale sui 200 milioni di euro - tra cui il “Café de Paris” di via Veneto, uno dei locali più in vista della città che da solo vale poco più di un quarto del sequestro. È qui, tra questi tavoli, che Federico Fellini crea – almeno nel nome – i “paparazzi”, quelli che poi si vedranno spaccare le macchine fotografiche in una storica rissa con le guardie del corpo di Frank “The Voice” Sinatra. [MORE]
Oggi, passata quell'epoca e con il bar in amministrazione giudiziaria, da quegli stessi tavolini si ordinano quotidianamente l'olio coltivato nella Piana di Gioia Tauro, il vino corleonese o la pasta casertana. Tutti prodotti che arrivano dalle terre confiscate alla criminalità organizzata attraverso il circuito di Libera.
Tra “The Voice” e i prodotti dell'organizzazione, infatti, nel bar c'è passata la 'ndrangheta. 'Ndrina degli Alvaro, “ramo” Testazza, per l'esattezza. Il bar, come hanno appurato gli inquirenti, è stato venduto nel 2005 a Damiano Villari, barbiere calabrese trasferitosi nella capitale e diventato il più importante dei prestanome della 'ndrina per il numero di intestazioni fittizie e l'elevato spessore delinquenziale, come si legge nell'ordinanza di arresto in seguito all'operazione “Rilancio”, avviata dal Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri nel 2007 e culminata, appunto, nel blitz del 2009. Villari – insieme ad altri ventisette prestanome – era il braccio, la mente era invece il boss Vincenzo Alvaro, considerato il capo cosca a Cosoleto (comune del reggino sciolto nel 1997).
C'era un marocchino impiccato. L'altra immagine da cui partire, abbiamo detto, è una corda. Come quella utilizzata per il suicidio di Mohammed Nasiri, 30 anni, di nazionalità marocchina e conosciuto dalle autorità per diversi precedenti per rapina e furto. Nasiri è uno dei due uomini che agli inizi dello scorso gennaio hanno ucciso Zhou Zheng, cittadino cinese 31enne e sua figlia Joy di nove mesi. Una rapina finita male, si è subito detto, alla luce dei cinquemila euro – l'incasso di quel giorno del bar gestito a Torpignattara dagli Zheng, noti anche per la loro attività di money transfer – del bottino.
Gli interrogativi però sono molti, e gli inquirenti non escludono nessuna pista, in particolare da quando hanno ritrovato in un vecchio casolare nella periferia della capitale la borsa rubata a Zheng Lia, moglie del commerciante, dove di euro ce n'erano almeno il triplo, insieme ad una maglia sporca di sangue ed ai telefonini dei coniugi.
In un altro casolare, in via Boccea, piena campagna romana, nei giorni immediatamente successivi al duplice omicidio, è stato trovato anche Nasiri. Impiccato. E qui gli interrogativi si infittiscono, anche se gli inquirenti, di fatto, chiudono la pratica. È suicidio, anche se in molti – alla luce del ritrovamento di segni non compatibili con il suicidio - puntano forte sulla pista del suicidio indotto. Magari dalla mafia cinese che, grazie anche ad una vera e propria alleanza con i campani (merci contraffatte e traffico di rifiuti le partnership), ha ormai da tempo stabilito una propria ambasciata nella capitale.
(foto: nottecriminale.wordpress.com)
(2 - Continua)
Andrea Intonti