L'esperto risponde

Riforma della Giustizia o Riforma del Potere?

Roma, 22 aprile 2011. - Per spiegare e capire la riforma della giustizia occorre preliminarmente muovere da alcune premesse, posto che la sua collocazione ha natura prettamente costituzionale e riguarda il modo e le regole che si dà il Paese per stare insieme.
Il diritto è un fenomeno sociale e tutte le riforme derivano dalla necessità di colmare eventuali lacune normative rispetto al contesto storico attuale e, in linea di principio, perseguono, in uno Stato di diritto, l’interesse generale.[MORE]


Come ogni moderno Stato di diritto, anche il nostro si fonda sul principio della divisione dei poteri e della leale cooperazione tra questi e, rispetto al sistema politico-istituzionale e all’esercizio di ciascuna funzione, in una democrazia, il cittadino è protetto costituzionalmente da ogni atto lesivo della sua dignità personale.
L’equilibrio tra i poteri è dunque un principio funzionale non soltanto all’architettura istituzionale di uno Stato, ma anche alla tutela del singolo e della collettività nel suo essere società e Nazione, in quanto titolare di diritti e di doveri. Così, se la sovranità appartiene al popolo, la legge non può che essere uguale per tutti, e tutti, hanno diritto ad un giusto processo.


In particolare, proprio la necessità di dare attuazione al giusto processo ha determinato in Italia importanti riforme e prima fra tutte, la trasformazione del sistema penale vigente dal modello inquisitorio al modello accusatorio, nel quale la prova della colpevolezza dell’imputato si forma in dibattimento nel contraddittorio tra le parti, sicché sino a condanna definitiva vige quindi il principio su cui si fonda la presunzione d’innocenza.
Il diritto di difesa e la pubblica accusa in un giusto processo devono dunque esercitarsi sullo stesso piano processuale e a un giudice, terzo e imparziale, compete il diritto-dovere di decidere sul caso, quando è raggiunta la ragionevole certezza probatoria dell’innocenza o della colpevolezza dell’imputato.


Questo è dunque l’ambito in cui si colloca la riforma della giustizia che ha quindi portata costituzionale, perché riguarda tanto l’equilibrio tra i poteri quanto la libertà personale dell’individuo. Eppure non v’è chi non vede come sulla sua migliore e condivisa soluzione, pesi come un macigno l’attuale conflitto politico-istituzionale che da anni ormai si ripete nel Paese tra potere giudiziario e potere esecutivo, spesso risolto con la semplice traduzione della contrapposizione tra giustizialisti e garantisti, col risultato unico di logorare la credibilità dei poteri e la fiducia del cittadino nell’efficienza delle istituzioni.


Il testo di legge che contiene la riforma della giustizia apporta importanti modifiche all’assetto dell’ordinamento giuridico vigente, e i punti chiave della riforma consistono nella separazione delle carriere tra giudici e pm, nell’istituzione di un nuovo Csm che governi e disciplini l’esercizio della funzione del pubblico ministero, nella diversa formulazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che andrà esercitata secondi i criteri stabiliti dalla legge, nella responsabilità civile dei Magistrati e, nella riforma del regime delle impugnazioni delle sentenze di primo grado.


La ragione per cui la riforma della giustizia così descritta, è da una parte voluta e dall’altra osteggiata, è essenzialmente politica. Non è un caso infatti che dietro la riforma esiste l’incapacità dei poteri in conflitto di pervenire ad una soluzione comune come il principio di leale cooperazione pretende.
In particolare, da una parte si vuole la riforma per impedire il c.d. uso politico della giustizia, dall’altra non si vuole che la riforma impedisca la giustizia, o comunque ne comprometta la funzione, sia per quanto riguarda la determinazione dei reati da perseguire, stabiliti per legge e sotto la supervisione del Ministro di Giustizia, sia per quanto riguarda la composizione dei membri che rappresentano gli organi di disciplina previsti, ossia i due Csm, uno per i giudici, l’altro per i pm. Non più nominati per 2/3 dalla magistratura, ma fino a metà dal Parlamento presieduto dal Capo dello Stato.


L’aspetto più rilevante per il cittadino riguarda però l’appellabilità delle sentenze che, nell’ipotesi di assoluzione in primo grado diverrebbero inappellabili, con evidente pregiudizio per la parte lesa che attende giustizia, e nell’ipotesi di condanna appellabili, come correttamente la normativa vigente già prevede.


L’iter della legge è comunque ancora lungo e la riforma, come ogni legge è assolutamente perfettibile. Tuttavia, trattandosi di legge costituzionale, occorre augurarsi che essa sia il più possibile condivisa, perché se un processo giusto esige il contraddittorio, una riforma giusta, neppure può farne a meno.