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Riapre la palestra di Mohammed Alì: un pezzo di Storia non solo afroamericana
MIAMI – Riapre a Miami la palestra dove Cassius Clay divenne, per tutto il mondo, Mohammed Alì. Sotto la guida del maestro Angelo Dundee, sbocciava il talento del più forte pugile di tutti i tempi: nella 5th Street Gym – riaperta in questi giorni dopo 17 anni, dai dollari del manager Tom Tsatas: c’è anche il sito internet www.5thstgym.com – veniva forgiato The Greatest, il più grande. [MORE]
Angelo Dundee accolse il giovane Cassius Clay nella palestra di South Beach di Miami, vicino alla spiaggia, tra i guantoni e i punching ball impregnati di salsedine, nel ’60. La futura stella della box aveva appena vinto la medaglia olimpica a Roma e aveva bisogno di un maestro capace di lavorare il suo talento grezzo, di plasmare i suoi muscoli acerbi e di addestrare le sue movenze ancora troppo istintive. La palestra della 5th Street – che ora, a differenza di prima, è situata al secondo piano invece che al pianterreno ed è aperta anche alle donne – divenne così la vera e propria casa di Cassius Clay, mentre Angelo Dundee e gli altri boxer divennero la sua famiglia.
Ma qual è il suolo in cui affonda le sue radici la figura imponente di Mohammed Alì?
Nato a Louisville nel 1942, da una famiglia afro-americana, è notato per la sua bravura da un certo Joe Martin che è a contatto col mondo della boxe e che accompagnerà il giovane Alì alla vittoria nelle Olimpiadi di Roma. Il più forte campione mondiale di pesi massimi di pugilato, con lo score impressionante di cinquantasei match vinti e soltanto cinque persi, vincitore di ventidue mondiali sui venticinque a cui ha partecipato, compie un passo importante, scolpito nella storia dello sport, che lo accomuna a figure speciali come quelle di Tommie Smith e John Carlos: convertitosi alla religione islamica, cambia nome da Cassius Clay a Mohammed Alì e sale su di un ring ben diverso dal solito, pronto a combattere una delle battaglie più grandi in cui lo sport sia mai intervenuto, la lotta contro il razzismo nei confronti dei neri. Condividendo le idee dei “black muslims” e delle “black panthers” di Malcolm X, è idolo di gran parte della popolazione mondiale, ma ha altrettanti nemici pronti ad ostacolarlo. Nel 1967 gli viene ritirato il titolo di campione mondiale e viene rinchiuso in carcere, poiché si rifiuta di andare a combattere in Vietnam. Come molti pugili hanno però potuto provare, mettere k.o. Mohammed Alì non è cosa da niente: nel 1970 al suo rientro nel mondo della boxe è nuovamente campione mondiale. La sua carriera si interrompe nel 1981: è malato di Parkinson. Conclude quell’anno la sua lotta sportiva, ma non quella morale sicuramente più importante e più difficile. Legge il Corano, coglie ogni occasione per difendere i neri d’America ed i musulmani quando vengono ingiustamente attaccati e si guadagna il soprannome di “Labbro di Louisville” proprio per le sue capacità comunicative. Interviene anche in occasione dell’attentato terroristico dell’11 settembre, dissociandosi da ogni tipo di fanatismo. In mezzo, Atlanta 1996: appena tre Olimpiadi fa. “Su di lui si appoggiò l’intero cielo con tutte le sue stelle”. Un uomo tremante, lento, col braccio sinistro menomato dal male, eppure imprevedibile ed impenetrabile come un antico saggio, prende parte al rituale. Regge la fiaccola, accende il fuoco olimpico che lo sovrasta, splendido ed immane. Lo sforzo di Atlante nel sostenere il peso del mondo, qui nella descrizione di Ovidio, ricorda il tremore di Mohammed Alì, che pure muta col suo gesto il significato della Manifestazione, caricandosi caparbiamente sulle spalle l’ideologia sacra e unificatrice delle Olimpiadi, già allora accantonata.
Il campione continua quindi a battersi, facendo ricordare i suoi scatti, i suoi ganci ed i suoi montanti unici al mondo. Finalmente, oggi, può sembrare di rivederlo, nella 5th Street Gym, mentre danza su di un ring, con l’agilità di un gatto e la potenza di una Pantera, magari Nera. [A.M.]