Cultura e Spettacolo

Riace che incontra il mare, il nuovo libro di Giuseppe Gervasi

Catanzaro, 26 dicembre - Nel 1991 l’Italia dovette affrontare la prima “immigrazione di massa”, proveniente dall’Albania, risolta con accordi bilaterali. 

Da quel momento in poi, però, gli sbarchi aumenteranno sempre più, in prevalenza dai paesi dell’area mediterranea. Donne, uomini e bambini in fuga dalle guerre e dalla povertà. 

I vari governi che si sono succeduti hanno dovuto regolamentare i flussi in arrivo con provvedimenti ad hoc, così nel 1998 abbiamo avuto la legge Turco-Napolitano, nel 2002 la Bossi-Fini, fino ai provvedimenti degli scorsi mesi in cui, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha chiuso i porti italiani alle imbarcazioni che trasportavano migranti. Nel 1998, una barca di profughi curdi raggiunge la spiaggia di Riace. 

Tutto il paese si mette a disposizione per accoglierli. Inizia così una storia straordinaria che in oltre venti anni trasformerà la cittadina ionica in un modello mondiale di accoglienza. L’artefice sarà il professore Mimmo Lucano, sindaco per tre mandati consecutivi, riconosciuto dalla rivista “Fortune” tra i primi quaranta uomini più influenti al mondo. 

Lo scorso anno un triste epilogo con l’arresto del sindaco per accuse che ad oggi sembrano tutte smentite. Ma perché proprio a Riace si è sviluppato il modello studiato e adottato come esempio nell'ambito della crisi dei rifugiati in Europa? Qual è la sua storia, quella dei suoi cittadini, e come era la ridente cittadina della locride nel 1998 quando i profughi curdi casualmente la raggiunsero?

A queste domande risponde “Riace che incontra il mare”, il nuovo libro del dottore Giuseppe Gervasi, già vice sindaco del professore Lucano. Una storia intensa, profonda, carica di sentimenti sani e forti che parte dal dopoguerra, quando la miseria era la vera nobiltà, cresce durante gli anni drammatici dell’emigrazione che ha spopolato il paese, matura nel periodo in cui anche il cuore dei riacesi rimasti si impietrisce e si conclude con l’ombra di un veliero che forse riaccenderà il cuore di un piccolo paese.

È l’amore il vero protagonista di questa narrazione. L’amore di mamma Anna che non esita a lasciare tutto ed emigrare in Argentina per il bene di suo figlio Cosimo. L’amore di Cosimo per sua mamma, per la sua amata Marisol che conoscerà nel nuovo mondo, per la luce dei suoi occhi, il figlio che nascerà, Giuseppe. L’amore per Riace che non verrà mai meno. L’amore di Marisol per Cosimo e Giuseppe che le consentirà di accettare il rientro in Calabria di tutta la famiglia e gli amori che nasceranno nel resto della storia.

Con una scrittura semplice ma dotata di un delicato lirismo, l’autore ci dipinge quel mondo contadino che, con la zappa in mano, ha fatto studiare i suoi figli che sono andati a vivere nuove vite sparsi per il mondo. Un mondo fatto di case di pietra, di campi coltivati, uliveti, vigneti, fondali di trasparenze, cieli limpidi, sudore, cibo umile e genuino, valori veri.  In un viaggio di sentimenti ed emozioni ci accompagna, poi,  attraverso quelle trasformazioni che hanno fatto sì che la modernità rendesse quel mondo nobile un ricordo sbiadito. Racconta il dramma dell’emigrazione, vissuto da chi è partito ma pagato a caro prezzo anche da chi è rimasto. “Un mare di corpi partiti con la morte nel cuore e la speranza imprigionata in un pugno chiuso….per alcuni il capolinea di un buon lavoro, per altri una vita di stenti e tante bugie…..fratelli e sorelle che lasceranno la vita terrena senza potersi più rivedere..”. Un popolo, quello riacese, che ha vissuto sulla propria pelle il dramma di dover lasciare la propria famiglia, la propria casa, la propria terra. Una ferita ancora sanguinante che non può consentire la dimenticanza, non può permettere ai cuori di impietrirsi, non può ammettere muri e porte chiuse. 

L’intensa e commovente storia d’amore che Gervasi ci narra è un sussurro potente quanto un tuono verso i pregiudizi contro l’immigrazione, verso una vita “resa nuda e fredda dall’ipocrisia del potere ghiacciato”. È nostalgia di quegli antichi valori oramai perduti che soltanto  “la beata ignoranza e il ritorno ai piedi scalzi farebbe riscoprire”, perché solo “la scuola delle viuzze e della campagna possono trasmettere”. È denuncia per un paesaggio marino che non si riconosce più, per la natura violentata. È una critica ad un popolo che di fronte ai problemi sostiene sempre che è “colpa degli altri”. È un ombra di speranza, sospesa tra cielo e mare, che forse riaccenderà i nostri cuori.

Saverio Fontana