Repechage:come va valutato? obbligo imposto dal datore di lavoro o consenso espresso del lavoratore?
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Repechage:come va valutato? obbligo imposto dal datore di lavoro o consenso espresso del lavoratore?

lunedì 9 gennaio, 2017

CATANZARO, 09 GENNAIO - In tema di repechage del lavoratore licenziato, il criterio della vicinanza territoriale, che permette la comparazione con altri dipendenti di altre sedi aziendali, non è obbligatoria, se non nelle ipotesi di licenziamento collettivo; inoltre, spetta al datore di lavoro provare: 1. l’inesistenza di posizioni di lavoro assegnabili al licenziando (o licenziato) per l’espletamento di mansioni equivalenti; 2. in caso di fallimento di ciò, la prospettazione al lavoratore della possibilità di reimpiego in mansioni che, seppur rientranti nel suo bagaglio professionale, sono comunque inferiori a quelle precedenti. Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, sentenza n. 26467/16, depositata il 21 dicembre. [MORE]

Il caso. Un lavoratore di una conosciutata catena di supermercati impugnava il proprio licenziamento, motivato dalla soppressione del posto di lavoro. Il Tribunale competente accoglieva la domanda, dando risalto alla possibilità che il dipendente fosse reimpiegato in mansioni equivalenti o inferiori, consentendogli così di conservare il proprio posto di lavoro.

Il datore di lavoro impugnava la sentenza di primo grado innanzi alla Corte d’Appello territoriale che ribaltava il precedente giudizio sul fatto che “la violazione dell’obbligo di repechage […] non aveva formato oggetto di idonee deduzioni in punto di fatto da parte del lavoratore”: quest’ultimo, infatti, non aveva indicato alcuna posizione lavorativa in cui avrebbe potuto essere ricollocato, ma aveva genericamente elencato possibili mansioni a lui attribuibili.

Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso per cassazione.

Innanzitutto, il lavoratore lamentava che, mentre lui, unico manutentore in azienda, era stato licenziato, il datore di lavoro aveva, invece, mantenuto in servizio i due manutentori dei punti vendita vicini. Altresì, il lavoratore aveva dovuto allegare gli elementi in base ai quali era desumibile il contrasto della scelta con gli obblighi di buona fede e correttezza.
Su tale punto, i giudici di legittimità rilevavano come il criterio della vicinanza territoriale, che permetteva la comparazione con altri dipendenti di altre sedi aziendali, non era obbligatoria, se non nelle ipotesi di licenziamento collettivo, come una considerevole giurisprudenza riconosce.
Il lavoratore, altresì, lamentava il fatto che i giudici di secondo grado avessero ritenuto provata l’impossibilità di reimpiegarlo, “in ragione della mancanza di assunzioni nel periodo successivo al licenziamento”, senza però aver tenuto conto delle assunzioni immediatamente precedenti.
Ma anche questo motivo non è stato atteso, in quanto esso introduceva allegazioni nuove, non dedotte nei giudizi di merito, ed era una doglianza “all’evidenza generica”.
Da ultimo, il lavoratore lamentava di essere stato attribuito a suo carico l’onere di dimostrare la propria disponibilità a svolgere mansioni diverse e di livello inferiore, mentre esso doveva necessariamente ricadere sul datore di lavoro, essendo interamente rimessa a quest’ultimo l’individuazione dei tempi del licenziamento e la proposta di un elenco di nuove mansioni.

Secondo la Suprema Corte questo motivo è fondato.

La Corte riconosceva l’inversione dell’onere della prova, ma in situazioni del tutto diverse, quali quelle in cui “la soppressione della posizione lavorativa riguardi uno od alcuni soltanto di più posti omogenei e fungibili presso una stessa sede di lavoro”. Nel caso in esame, però, il lavoratore era l’unico manutentore in servizio, motivo per cui non vi era margine discrezionale, nel caso di riorganizzazione aziendale. L’eventuale patto di demansionamento, anteriore o contemporaneo al licenziamento, aveva bisogno del consenso espresso del lavoratore, al quale però andavano prospettate altre mansioni in cui potrà essere utilizzato.

Pertanto, è il datore di lavoro a dover provare: 1. l’inesistenza di posizioni di lavoro assegnabili al licenziando (o licenziato) per l’espletamento di mansioni equivalenti; 2. in caso di fallimento di ciò, la prospettazione al lavoratore della possibilità di reimpiego in mansioni che, seppur rientranti nel suo bagaglio professionale, sono comunque inferiori a quelle precedenti.

Per questi motivi la Corte di Cassazione cassava la sentenza impugnata e rinviava al giudice d’appello.

Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express
 


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