Cronaca
Recitare a schiena dritta. Intervista a Giulio Cavalli
MILANO, 23 LUGLIO 2013 - Giulio Cavalli è attore ed è sotto scorta dal 2008. La ‘Ndrangheta non gradisce gli attacchi che lancia dal palco, le verità che racconta al pubblico di quel Nord dove per molti ancora vale il ritornello: «qui la mafia non esiste». I suoi spettacoli si ispirano a fatti realmente accaduti, al presente civile, sociale e politico dell’Italia. Da Linate 8 ottobre 2001: la strage (2007) sull’incidente aereo, a Bambini a dondolo (2007), sul turismo sessuale infantile, a Primo L. 174517 (2008), uno spettacolo ispirato al romanzo Se questo è un uomo di Primo Levi, agli spettacoli sul tema della mafia: Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi (2008), A cento Passi dal Duomo (2009), Nomi, cognomi e infami (2009) e L’innocenza di Giulio - Andreotti non è stato assolto (2011). Nell’aprile 2010 all’impegno teatrale ha affiancato quello politico, ed è stato eletto come consigliere regionale indipendente nella lista dell’Italia dei Valori in Lombardia; successivamente ha aderito al gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà, che oggi rappresenta nel consiglio regionale lombardo.[MORE]
Nasce come artista di teatro. I suoi spettacoli si ispirano a fatti realmente accaduti, al presente civile, sociale e politico dell’Italia. Ha affermato che il teatro deve essere un «mezzo per mantenere vive pagine importanti della nostra storia». Deve avere l’obbligo morale di prendere una posizione netta in merito agli avvenimenti che accadono, un teatro di controinformazione. Crede che il teatro possa avere la capacità di influire sulla coscienza civile di un Paese?
Certo. Non lo dico io ma lo dice la storia del teatro. Attraverso la parola si costruisce il pensiero e, nel migliore dei casi, si coltiva la capacità di analisi collettiva. Il teatro poi, a differenza di un libro e soprattutto della televisione, richiede anche allo spettatore una “costrizione” fisica che non può esimersi da una partecipazione attiva: in teatro devi scegliere di andare, scegliere di vedere proprio quello spettacolo e difficilmente si riesce a liquidare l’esperienza in pochi minuti uscendone. In più in teatro ci si mette la faccia e il corpo ed è molto più facile capire se il portatore delle parole sia intellettualmente onesto. É una visione tattile, direi.
Diversi suoi spettacoli nascono da sentenze giudiziarie. In che modo avviene il processo di trasformazione di una sentenza in un’opera teatrale?
Cercando di cogliere all’interno delle carte giudiziarie la storia profondamente umana e il paradigma sociale. All’interno di molti processi si sono scritte verità che esulano dall’ambito giudiziario e descrivono comportamenti di questo tempo. Spesso gli atteggiamenti non sanzionabili per legge (ma comunque inopportuni) sono più significativi delle sentenze. L’umanizzazione delle carte giudiziarie è una scultura che è già disegnata nel cubo, basta farla venire alla luce. E’ un lavoro che ha bisogno di una buona arte di togliere e di una buona umiltà nel non aggiungere.
Dal 2010 è passato anche all’impegno diretto in politica; si è candidato alle elezioni regionali della Lombardia come indipendente nella lista dell’Idv. Come mai ha deciso di affrontare anche questo tipo di impegno? L’approccio culturale non era sufficiente a cambiare le cose? Una volta eletto ha aderito al gruppo di Sel, perché?
Perché il mio teatro è profondamente politico. Ed è politica tutto ciò che decide di non accettare le verità precostituite o semplicemente andare a fondo delle situazioni. Non credo nel “teatro civile” che si illude di fare cronaca o memoria. Si può essere apartitici, certo, ma una posizione politica sta in ogni narrazione che si rivolga alla coscienza civile di un Paese. L’attività all’interno delle istituzioni quindi non ha nulla di innaturale rispetto ad uno spettacolo, un articolo o un libro. L’appartenenza a questo o quel partito è semplicemente un mezzo. Che trovo poco interessante. In Italia la coerenza rispetto ad un’idea spesso è più ferma dei programmi o delle dinamiche di partito.
Dopo aver passato anni a negarne l’esistenza, si può dire che oggi la presenza della mafia al nord Italia è riconosciuta? Qual è la situazione attuale in Lombardia?
Certo è più sentita. Ma siamo ancora a livello di sterile litigio politico o semplice allarme. Manca il percorso di responsabilizzazione e di studio. Oggi il nord ha l’occasione di prepararsi alle mafie facendo tesoro del sud migliore ma è ostaggio di un federalismo che è più un embargo di esperienze positive che altro.
È autore del volume “Nomi, Cognomi e Infami”, racconta quale sia lo stato e le collusioni della criminalità organizzata nel settentrione, perché mettere in scena una realtà cruda come quella delle mafie?
Perché mentre chiedevamo di non avere paura siamo finiti sotto minaccia. Ed era inevitabile accettare la sfida.
Le mafie hanno uno o più lati disonorevoli?
Moltissimi. Spesso le mafie sono l’associazione organizzata dei vizi della malapolitica, dell’imprenditoria spericolata e della cittadinanza incostituzionale. E infatti sono i suoi compagni preferiti.
Per lo spettacolo “Do ut Des”, nel 2008, hai subìto delle intimidazioni mafiose. Da quel momento le è stata assegnata la scorta. Immaginava che il suo spettacolo potesse provocare un simile effetto?
Non parlo di minacce. Mi annoia questa epoca di minacciati fascinosi come bomboniere della legalità. Sono stato minacciato come è minacciata più in concreto la bellezza e la moralità in Italia.
Cos’è la libertà e cosa rappresenta per lei?
Riconoscermi in tutto quello che faccio.
Se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto?
Certo. Altrimenti sarei stato un omertoso, no?
Giulia Farneti