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"Reality"di Matteo Garrone, la religione della Grande Fratellanza
Reality di Matteo Garrone - La recensione. Panoramica su case e strade, con la silhouette del Vesuvio che contestualizza il prologo nel napoletano, terra dove sacro e profano si mescolano. Una processione, profanissima, è quella della carrozza trainata da cavalli bianchi, che trasporta due candidi sposi in una villa per cerimonie, piena di nuovi mostri agghindati. Taglio di nastro, colombi che planano coreograficamente e foto di gruppo a bordo fontana. Ma il pezzo grosso arriva più tardi: è il divo dell’ultima ora, di recente uscito dalla casa del Grande Fratello e già circuitato nelle apparizioni di 15 minuti a cachet faraonico, nonostante sia stato eliminato dopo soli 16 giorni. Dal canto suo, Luciano Ciotola (Aniello Arena), pescivendolo che arrotonda con qualche comparsa artistica ai matrimoni, osserva la scena e viene suggestionato dai flash e dai suggerimenti dei familiari: parteciperà ad un casting ed aspetterà la grande occasione. Ma lo star power logora chi non ce l’ha. [MORE]
FIABE ALLA WARHOL - Il folgorante prologo di Reality di Matteo Garrone fa venire in mente quella dichiarazione rilasciata dal regista, alla sua seconda opera di successo internazionale dopo Gomorra, in occasione della presentazione del film alla scorsa edizione di Cannes, dove ricevette il Grand Prix della Giuria: “Reality comincia come una fiaba e finisce come un film di fantascienza”. L’autore della fiaba, idealmente, sarebbe Andy Warhol: ma poi i colori pop della fotografia satura dell'incipit si disperdono tra i crocicchi di Napoli, nei quartieri sovraffollati dove la moglie di Luciano (Loredana Simioli) smercia elettrodomestici a basso costo con tanto di riscossori in formato pizzo, più che pizza: ed infine, si disperdono nel grigio labirinto della follia, che pian piano, ossia tra un piano sequenza e l’altro, s’impadronisce della mente dell’aspirante concorrente, ossessionato dall’ambizione irrealizzata di entrarci, in un elettrodomestico – cioè nella televisione. L’alienazione, ossia la vendita, della pescheria fa il paio con l’alienazione mentale, ma ancor di più con la paranoia dell’essere osservati dall’occhio alieno, dallo sguardo altro: al punto che, in una scena che riecheggia Bellissima di Visconti, nel servire una cliente romana, il pescivendolo, coi primi sintomi della monomania incipiente, comincia a formarsi l’idea che fossero sia un'inviata della produzione tv, e che ogni gesto venga monitorato. Dietro Warhol spunta Orwell, ma in una versione kafkiana psico-tormentata, condannata al limbo di un sempiterno knockin' on Heaven's' door.
Di fatto, il montaggio pedinatore, con sequenze continuate e pochi stacchi, in parte memore di quello formato reality di Gomorra, è funzionale a creare una sorta di continuum psico-fisico, in cui gli oggetti concreti di un set carnale quale quello degli ambienti partenopei sembrano a poco a poco confondersi nella coltre della paranoia allucinativa, anzi, alluci-nativa di Luciano. Il riscatto dalle origini plebee, nella terra delle speranze costantemente frustrate, è più dell’ennesima aspirazione frustrata: nel contesto di Napoli, dove depressioni ed entusiasmi raggiungono spesso il parossismo, il risultato della mancata santificazione televisiva diventa patologico. Luciano comincia a costruirsi un set immaginario, con registi invisibili come angeli custodi: un paradiso artificiale a cui, infine, riesce ad accedere come per effetto di un'Assunzione (anche visiva, visto il movimento aereo della macchina da presa), dopo aver preso parte ad una fiaccolata a Roma. Città santa, essa è anche cine-città, il luogo delle finzioni che si ibridano alla realtà: ma il problema di Luciano è che la società dello spettacolo è diventata un fatto interiore, di un’interiorità malata per la quale l’estasi non è un misticismo, ma una droga (assunta).
QUESTI FAN-TASMI - Come in Gomorra, la patologia è sistemica: al dramma corale, però, si sostituisce una farsa tragica in cui il capro espiatorio è sotto i riflettori, con l’espressione inebetita dell’attore che non ha ben chiaro il canovaccio, come il Gilles di quel famoso dipinto di Watteau – famoso pittore rococò, cioè della società settecentesca perennemente recitante. Luciano è un personaggio sottilmente farsesco, e lo si avverte quando diventa definitivamente la maschera di se stesso nella scena in cui adibisce uno sgabuzzino a finto “confessionale” - termine ecclesiastico - del Grande Fratello. La tragedia è collettiva: quella, cioè, della fede nel sistema dei soldi facili, della finzione, dell’apparenza, dei 15 minuti di (falsa) gloria. Non è, infatti, la gloria dei cieli: eppure tutto fa pensare ad una religione della comparsata televisiva che trasformi la “fame” (nel senso del bisogno) in “fame” (la parola inglese che vuol dire “fama”). La religione della Grande Fratellanza, con i suoi idoli ed un'immensa setta catodica.
Il “non mollare mai” che l’ex concorrente del Grande Fratello propina come Bibbia a Luciano, quando questi teme di essere stato escluso dal programma, e che a qualcuno ricorderà la sigla di un reality italiano cantata da un interprete napoletano, è la versione contemporanea della virtù teologale della speranza; Luciano, con negli occhi il Caravaggio del Pio Monte, sembra voler attraversare tutte e sette le opere di misericordia, pur di guadagnarsi il suo Paradiso – dona tutto ciò che ha, offre da mangiare ad un vagabondo che inizialmente aveva scacciato in malo modo, nell’auspicio che un occhio invisibile lo veda e lo premi ammettendolo al programma, in uno scouting nascosto della coscienza; ma soprattutto, appare dalla finestre della casupola nei bassi, come una sorta di Cristo nell'iconografia dell’Ecce Homo. Il fanatismo, come una fede religiosa malata, gli popola la mente di fan e fan-tasmi: a Garrone non resta che costruire il castello incantato del set del programma, che a questo punto sembra piuttosto una chiesa sconsacrata, con tanto di confessionale, in cui si accede a riti bacchici a bordo piscina. Fantastico – negli occhi di Luciano, ed in effetti – ma nel senso di “irreality” – anche in quelli dello spettatore.
Con Reality, candidato ad 11 David di Donatello, Matteo Garrone mostra la Gomorra nazionale dello star system televisivo, che nessuno annienterà per punizione, essendo il reality accettato acriticamente come realtà mistica: è una fede, e per citare San Paolo, a qualcuno tocca la “follia della croce”.
Regia: Matteo Garrone
Interpreti: Aniello Arena, Claudia Gerini, Arturo Gambardella, Nunzia Schiano, Ciro Petrone, Loredana Simioli
Origine: Italia 2012
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 110'
Antonio Maiorino
Critico d'arte e di cinema
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