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SPECIALE OSCAR 2013 - "Re della terra selvaggia", ci vuole un fisico bestiale per crescere
Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin, la recensione - Se Lincoln di Steven Spielberg è un affresco magniloquente della Storia americana, d’una retorica rumorosa che diventa mitografia, Re della terra selvaggia è una microstoria immaginaria delle periferie acquitrinose, che dal proprio decentramento silenzioso riesce a fare di una favola delicata, lontana dai chiassi del Congresso, una parabola trasversale e toccante, più universale delle fanfare dell’epica. [MORE]Merito di un esordiente, Benh Zeitlin, trentenne newyorkese a guida di un gruppo di artisti (Court13) aggregato nel 2004 con i compagni di college, e ben consapevole degli effetti dell’uragano Katrina (2005) per essersi trasferito a New Orleans dopo la tragedia dell’uragano. Un occhio, dunque, irritabile dall'arte e sensibile alla realtà, da cui deriva l’inconfondibile paesaggio cinematografico di Re della terra selvaggia ed il suo tono distesamente post-apocalittico.
La terra selvaggia è la Louisiana, ghetto paludoso ai confini della minacciosa avanzata della città industriale, entro i bastioni di una diga. È una specie di grande vasca – Bathtub si chiama il villaggio, acquitrinosa bidonville nella zona del Delta alle porte di New Orleans. Non è zona di eroi, per quanto sopravvivervi sia eroico. Ma i poveracci che la abitano, anche ubriachi e violenti, conservano una fierezza ed una dignità nel vivere una simbiosi sfavorevole con quella plaga umida, luogo fisico di un destino segnato. Ed anzi, dalla terra ingrata si procacciano il sostentamento, cacciando e pescando. Sulla testa di questa comunità para-primitiva, incombe lo spettro degli uragani, che puntualmente arriva a cambiare il paesaggio, ma non lo stoicismo dei nativi. Uno di questi, Wink (Dwight Henry), malato e vedovo, vorrebbe che la figlioletta Hushpuppy (Quvenzhané Wallis) non abbandonasse la zona, ma diventasse abbastanza forte da sopravvivervi. Necessario, allora, che la bambina passi per un tirocinio di vita fatto più di fiele che di miele: una precettistica senza fronzoli, anche brutale, a metà tra l’educazione e l’addestramento. Roba da bestie, insomma – ma è così che si diventa capobranco. Come a dire: "spezza i granchi, e non ti si spezzerà il cuore".
Se Il Re della terra selvaggia appartenesse ad una corrente pittorica, sarebbe sicuramente quella della pittura naif di Henri Rousseau, o del Realismo magico. È una forma poetica accostante, estranea agli intellettualismi, guidata dalla mano sicura di un regista che s’immedesima nello sguardo di una bambina sul punto di avverare la crescita precoce a cui la spinge il padre, ma è ancora nel limbo di un’età fisiologicamente protesa ad una visione immaginifica, avventurosa. Siamo, cioè, anche visivamente, in una sorta di aurora del mondo, che è anche l’alba di un’esperienza di vita: Hushpuppy è una futura Didone da avvezzare alla sindrome dell’abbandono, il suo regno, in parte prodotto dal fervido occhio infantile, è allo stesso tempo un non-luogo, in cui si confondono immaginazione e ricordi sfocati, ed uno scenario di prepotente fisicità, con una Natura da domare nella concretezza dei propri scatenamenti.
Questo spazio concluso, valorizzato dai campi lunghi, assurge ad arena in cui l’emotività fantasiosa della bambina si misura con la vita agra del proprio romanzo di formazione, ma anche a spaccato di un ghetto impossibile, in cui la consapevolezza dell’isolamento è assunta non come declassamento dall’umano partito, ma come l’esatto contrario: sublimazione dell’essere umani, oltre ogni ostacolo, fuori dal tempo non meno che dallo spazio, e così dentro ad ogni storia. Dice Hushpuppy: “Se papà mi uccide non verrò dimenticata: sto registrando la mia storia per gli scienziati del futuro. Tra un milione di anni, quando i bambini andranno a scuola, sapranno che un tempo c'è stata una Hushpuppy che viveva con il suo papà nella Grande Vasca”. L’effetto è quello di una vicenda inserita in un ciclo naturale, lo stesso in cui i personaggi cercano d’inserirsi, isolando la propria comunità nello sforzo di sopravvivenza, che però, paradossalmente, ne fa esponenti di una razza più grande, dura ad estinguersi, col peso dell’evoluzione sulle spalle: pellaccia dura, l'Homo Sapiens Sapiens. Specie le tribù con un Noè femmina.
Ma non è un manuale di darwinismo. L’aspetto più schiantante del film è nella trasfigurazione lirica di questo percorso: l’istinto sboccia come un fiore esotico, non si sedimenta meccanicamente. Sicché, quello di Hushpuppy è un apprendistato in cui l’immaginazione affianca la corporeità dei traumi: la fragilità della bimba – “niente lacrime”, le ripete il padre – emerge nella delicata poesia della scena in cui si fa cullare dalla cameriera di un’osteria, figura materna, e ripensa al fatto che solo due volte in vita sua era stata cullata, e l’altra era stata alla nascita, prima ancora che la si lavasse, quando il padre aveva voluto farle subito prendere una boccata d’aria di quel mondo ostile. Ed ancora, la durezza si stempera nell’implicita tenerezza della carica ludica con cui Hushpuppy sfida il padre: “Chi è l’uomo?”, chiede Wink, “io sono l’uomo!”, ripete lei; ed è un mantra che esprime tutta la propria ostinata fragilità in quelle braccine esili che gonfiano muscoli invisibili. Sono come muscoli dell’anima: sufficienti per quietare gli animali immaginari, gli Aurochs, che in questa landa proiettata come una mitologia del cuore sembrano la concrezione cinematografica della terra selvaggia da addomesticare a misura d’uomo – o di bambina che si proclami tale.
Sceneggiato insieme a Lucy Alibar su un'opera teatrale della Alibar intitolata Juicy and Delicious, Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin è un racconto che finisce per diventare un Labirinto del Fauno all’incontrario, in cui non è l’immaginazione a recare omaggio ad una realtà luttuosa, ma è quest’ultima a piegarsi alla favola biografica, a farsi domare da una tenera fantasia, che fa la voce grossa sul ruggito della Natura fino ad imporsi come un mito universale.
(in foto: una scena del film Re della terra selvaggia)
Antonio Maiorino