Alina Gorlova vince al Festival dei Popoli con This Rain Will Never Stop: "nel limbo della guerra"
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Alina Gorlova vince al Festival dei Popoli con This Rain Will Never Stop: "nel limbo della guerra"

lunedì 21 dicembre, 2020

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, This Rain Will Never Stop di Alina Gorlova: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Se ha vinto il premio principale al recente Festival dei Popoli di Firenze, il documentario This Rain Will Never Stop di Alina Gorlova non lo deve solo alla capacità di aver saputo attraversare sofferenza, spaesamento e umana resistenza di popoli che vivono in guerra: nel Donbass, regione dell’Ucraina; in Siria; in mezzo ai campi dei rifugiati, nelle terre di nessuno, o tra i nessuno senza terra. La qualità della regista ucraina – giovane, ma invecchiata di ben quattro anni da quando ha iniziato a seguire le vicende del proprio protagonista –  è quella di essersi ingegnata a trovare una forma originale e penetrante per il proprio racconto, smarcandosi dall’utile ma anonimo reportage di guerra, così come dal pietistico film di protesta o dal generico pamphlet politico. Il filo rosso è nella Croce Rossa: This Rain Will Never Stop segue le vicende di Andriy Suleiman, ventenne di madre ucraina e padre curdo di Siria, attivo con la nota organizzazione non governativa in zone tormentate da conflitti spesso incomprensibili ai civili. Passando dalla Siria paterna all’Ucraina materna, c’è un ponte che si chiama, per i rispettivi popoli, guerra.


LA TRAMA

Quando, poco prima della conferenza organizzata dalla Croce Rossa, Andriy si esercita a raccontare la propria storia, la sua tutor gli chiede di farlo meno meccanicamente, con più passione: quella passione confluita nella scelta di vita di aiutare la Croce Rossa, dopo aver lasciato una guerra per un’altra, passando da Hasukah in Siria – dove viveva la famiglia – alla città natia della madre, Lysychansk in Ucraina. Ora, queste zone di guerra entrano nella geografia cinematografica di This Rain Will Never Stop, ma oltre ad essere una geografia umana, che sfiora pallottole e incrocia vite di pastori, rifugiati, esodati di varia sorta, volontari e soldati, muta in geografia aliena: salti inattesi in altre parti del mondo, voli panoramici su dune e montagne, intermezzi di parate militari o manifestazioni arcobaleno, unificate dal bianco e nero di Vyacheslav Tsvetkov (autore della fotografia di The Earth is Blue as an Orange, premiato al Sundance) e turbate da incursioni elettroniche della colonna sonora. Questa è la guerra, come se la vedessimo al telescopio: un fenomeno ciclico, nella historia naturalis dell’uomo, di là del colore delle divise.


PERCHÈ INNAMORARSI DI THIS RAIN WILL NEVER STOP

Diviso in capitoli numerati, innervosito da un montaggio a sei mani – Olha Zhurba, Simon Mozgovyi e la stessa regista – con strappi improvvisi come fossero disturbi sulla linea cinematografica, ricomposto e unificato nell’eleganza del bianco e nero, il film di Alina Gorlova racconta le aspirazioni di un giovane volontario, la micro-saga familiare e la macro-storia contemporanea in un espressivo intreccio di prospettive cinematografiche. Il severo quadriennio di complicate riprese in zone di guerra non si quieta nel racconto cronachistico, ma sceglie di lasciare allo spettatore suggestioni guidate – metafore, simboli, allusioni – per farsi un’idea delle conseguenze della guerra in uno scenario di connessioni interrotte, ponti distrutti dalle bombe o sommersi dalle alluvioni, gente in fuga, combattiva o pacificamente rassegnata al caos che divampa nel cosmo. Un’esperienza del nostro tempo, offerta sperimentalmente e da sperimentare.  


L'INTERVISTA: ALINA GORLOVA RACCONTA


ANTONIO MAIORINO: so che le classiche domande di partenza al regista, per molti documentari che eleggono un protagonista come tu hai fatto con Andriy Suleiman, sono del tipo: come l’hai scelto, come hai deciso di fare un film su di lui, come l’hai conosciuto, ecc. Posso permettermi di sfatare questa banalità? Chi l’ha detto che un documentario nasca da una persona\personaggio? Può nascere da un’idea, un’atmosfera, una sensazione, un luogo. Qual è stata la tua scintilla creativa?

ALINA GORLOVA: il punto di partenza è stato la mia visita alla zona di guerra di Donbass. Anche se nel film non viene esattamente mostrato, era una zona dove piovevano bombe e soprattutto non si poteva fare agevolmente ciò che si voleva. Quando ti spostavi in auto, venivi regolarmente fermato senza poter raggiungere né le zone di campagna né la foresta. Era molto pericoloso, soprattutto nel periodo in cui ci ho fatto le riprese. Ho allora cominciato a pensare a questo spazio in bianco e in nero. Tutta la bellezza della natura intorno era preclusa, era come irraggiungibile. Dopodiché, in effetti, la svolta è arrivata con l’incontro di Andriy Suleiman. Avevo pensato sin da subito di cercare un personaggio maschile, ma del territorio; quando ho incontrato lui, ho capito che il fatto che combinasse due diverse origini, quella curda del padre siriano e quella ucraina della madre, potesse essere speciale, e soprattutto portasse a unificare il Donbass con la Siria. Pensavo che in Siria avrei filmato molte dune e deserti, ma poi in realtà mi è bastato filmare alcune zone del Donbass ed aggiungere della musica araba per creare uno spaesamento: lo spettatore non avrebbe capito in che territorio ci trovassimo. Volevo, quindi, prima di tutto unificare lo spazio. Al suo interno, poi, avrei mostrato le storie di vita dei personaggi, mi sarei concentrato sui destini della gente. Durante le riprese, tuttavia, io e il direttore della fotografia abbiamo osservato come il film si prestasse a metafore molto interessanti: su tutte, l’acqua che scorre e, per l’appunto, la sorta di limbo in cui vivevano le persone.



A.M: il cinema è uno spazio aperto. So che ci hai messo quattro anni per seguire le vicende di Andriy e fare le tue riprese. In passato, hai dichiarato che “la realtà è viva e ti porta dritto alla storia che deve essere raccontata”. Rispetto ai progetti iniziali, dove ti ha portato la realtà in questi quattro anni? Come ti ha saputo sorprendere?

A.G: ci sono state molte sorprese. La prima è stata quella di imbattersi in storie davvero fantastiche. C’erano però anche gli sfondi, il contesto; ho quasi pensato di poterci girare un documentario a parte, sarebbe stato il mio sogno. Per valorizzare questi luoghi, ho cercato di curare le connessioni tra lo scenario e le storie personali, secondo un equilibrio non sempre facile da conseguire. C’era un collegamento? C’era un flusso di metafore che potesse funzionare a livello subconscio? Non volevo, infatti, che il film coincidesse con una storia da libro, con la storia del protagonista; volevo che lo spettatore vivesse un’autentica esperienza. La principale metafora che ho individuato è stata quella dello scorrere dell’acqua, ed è stato davvero sorprendente scoprire che il fiume Tigri fosse esondato dagli argini: la realtà ha cominciato a recitare con noi e ci ha fornito degli elementi preziosi per il film. Proprio a causa dell’esondazione, essendo il fiume al confine tra Turchia e Siria, non eravamo potuti passare in Siria. L’altra sorpresa è stata quella del funerale. Nessuno poteva prevedere la morte del padre di Andriy. Filmare il funerale è stata una sfida tecnica ed etica. Ho dovuto filmare da sola con operatori di camera siriani, senza presa diretta del suono e senza il mio direttore della fotografia. Inoltre, è stato stremante perché si avvertiva il grande dolore della famiglia, ed essere lì con la macchina da presa non poteva non porre delle questioni etiche. Non era facile da spiegare alla famiglia.


A.M: gli esami tecnici non finiscono mai. Intervistando a maggio 2020 la fresca vincitrice del noto festival Visions du Réel, Francesca Mazzoleni, a proposito del suo documentario Punta sacra, ho appreso che la struttura in capitoli del suo film, che in qualche modo mi vien da collegare a quella del tuo This Rain Will Never Stop, non era stata pensata dall’inizio, bensì era un’idea sopravvenuta in fase di montaggio. Similmente, circa le modifiche “last minute”, mi raccontava Luca Ciriello in un’intervista a proposito del film L’Armée Rouge, in concorso proprio al Festival dei Popoli dove il tuo film ha trionfato. È successo anche con la divisione in parti numerate di This Rain Will Never Stop?

A.G: Sì. è un’idea che è venuta dopo, durante il montaggio. All’inizio avevo in mente i titoli di alcuni capitoli, come guerra e pace, oppure l’ultimo capitolo sui curdi che imparano il tedesco. Durante il montaggio ho capito che dovevamo creare una forma per il film. Mi sono detta: dobbiamo dare una forma al film. Ho capito che dovevo strutturarlo perché avevo molto materiale e molte storie. Ho usato questo libro che ora ti mostro, Il libro dei simboli (Taschen Editore), con tutti i simboli e cosa significano nella storia dell’umanità. Vi si esplora cosa significhi il sole o l’acqua, davvero fantastico. Ho creato il documentario con parte di questi simboli. Ho deciso di creare questi capitoli dall’inizio alla fine e cercare in ogni capitolo di trovare il proprio simbolo di riferimento. Ecco perché ho creato i capitoli. Ma dopo ho trovato che volevo usare i numeri per dire che questa storia era, è e sarà, in ogni tempo, ed ecco perché andiamo da un capitolo zero iniziale a un capitolo zero finale, per costituire un ciclo: questa è stata la decisione finale.


A.M: hai dichiarato in varie interviste che pur muovendoti nel contesto di due guerre, in Ucraina e in Siria, il tuo film cerca di essere “apolitico”, specie perché Andriy collabora con la Croce Rossa, che è un’organizzazione neutrale. Domanda filosofica: visto che, come mi hai appena detto, volevi far vivere un’esperienza diretta allo spettatore, non pensi che questa scelta artistica sia comunque, in qualche modo, una scelta politica?

A.G: (Ci pensa in silenzio per diversi secondi, n.d.R.) Lasciami pensare… (esita, n.d.R.) Sì, probabilmente c’è qualcosa di politico. Ho dichiarato che il film è non-politico, ma indubbiamente m’interrogo sulla situazione dei curdi e sul fatto che siano pressoché privi di governo, e che siano visti da alcuni come terroristi sia in Siria che in Turchia. Quindi, non posso dire che il film sia non-politico al cento per cento. (Ci pensa ancora in silenzio, n.d.R.) Però, quanto al considerare un gesto implicitamente politico quello di far vivere un’esperienza allo spettatore attraverso l’arte, forse no: quando fai vivere un’esperienza a qualcuno attraverso l’arte non compi un atto politico. Certo è, si tratta una domanda rilevante, di una questione. complessa La generalizzerei così: può l’artista sempre e comunque essere non-politico? Forse sì, forse no. Ha a che fare col senso generale dell’arte.  



A.M: voglio riprende ancora una tua dichiarazione. Mi hai detto del tentativo di unificare lo spazio: This Rain Will Never Stop racconta questo spaesamento della gente che soffre le conseguenze della guerra e del tentativo di Andriy di rendersi utile con la Croce Rossa. Ma spesso gli spazi sembrano fratturarsi: c’è un’enfasi particolare sui posti di blocco, sulle frontiere interne, sui ponti crollati o sommersi. Come hai combinato connessioni e disconnessioni, spazio unificato e spazio fratturato?

A.G: ho pensato dall’inizio che la mia metafora principale sarebbe stata quella del limbo secondo il concetto espresso nel Corano, precisamente nel capitolo Al-A'râf. Nella nostra cultura, il limbo è come uno spazio, mentre nel Corano il senso è quello di muro, di ostacolo. Mi sono chiesta proprio questo: quale doveva essere la metafora principale, quella di spazio o di barriera? Ho allora prestato particolare attenzione proprio ai posti di blocco e ai campi dei rifugiati, come fossero zone di connessione interrotta, così come ai ponti distrutti che si vedono nella prima parte. È tutto un film sulle connessioni interrotte, e sembra che per Andriy il punto di riferimento in un contesto del genere, l’unica cosa in grado davvero di coinvolgerlo e di dargli delle certezze sia la Croce Rossa. Andriy sa molto bene cosa fare e come lavorare.


A.M: anche a livello tecnico c’è una sorta di connessione interrotta che ricorre nel film. Ad ogni “capitolo” numerato del tuo film, il passaggio da una sequenza all’altra è mediato da una sorta di glitch, uno stacco del montaggio che simula una sorta di disconnessione\connessione. Perché questa scelta, che elettrizza l’attenzione dello spettatore?

A.G: ho una risposta molto precisa a questa domanda. Non volevo che lo spettatore si limitasse a seguire la storia del protagonista, bensì che avesse sempre presente il particolare punto di vista scelto per il film. Mi sono domandata, come possiamo ricordare ogni volta allo spettatore da che punto di vista sta osservando i fatti? Ecco perché all’inizio, con le riprese dall’alto, abbiamo creato una sorta di effetto “alieno”, vale a dire, guardare alla Terra come se fossimo alieni che osservano un altro pianeta. Ma non bastava farlo solo all’inizio: dovevo ricordarlo allo spettatore ogni volta, così con quegli stacchi del montaggio tra una parte e l’altra della struttura filmica abbiamo tecnicamente finto una sorta di perdita di connessione in questo limbo di rifugiati e rispetto al protagonista. Si potrebbe dire che This Rain Will Never Stop è proprio sul perdere le connessioni.


A.M: alcune recensioni del tuo film azzardano l’idea che lo stesso bianco e nero contribuisca alle metafore del film, e che quindi sia una scelta non solo estetica, ma anche simbolica. È vero?

A.G: all’inizio era solo una scelta estetica. Volevo fare un film in bianco e nero. È una forma che trovo molto elegante, avevo questo pensiero e volevo fare qualcosa del genere a livello formale. C’è stato anche un momento, durante questi quattro anni, in cui ho valutato di usare il colore, ma alla fine ho deciso di propendere per il bianco e nero. Tuttavia, come ho detto prima, c’è anche un aspetto metaforico: volevo creare un mondo unico, in cui lo spettatore non sempre riuscisse a riconoscere il luogo: Siria o Ucraina? Ho capito che il bianco e nero creava delle “rime visuali” tra diversi posti e diversi riti (le parate militari e le manifestazioni pacifiche che si vedono nel film). Nell’ultima settimana di montaggio, poi, ho lavorato in solitudine, deliberatamente, perché ritengo che sia importante per il regista fare questo tipo di lavoro da solo nella parte finale. Allora ho scoperto che il bianco e nero potevano anche esprimere due poli opposti: guerra e pace, odio e amore, morte e vita. Ma non l’ho detto a nessuno della troupe: ho pensato che forse mi stessi ammattendo, perché cominciavo a vedere significati ovunque e a trovare il senso in ogni cosa!


A.M: c’è un’altra scelta estetica che modella in maniera significativa il film, ossia l’uso della colonna sonora, per lo più le parti elettroniche. In alcuni momenti sono brecce nel racconto: lo score musicale si affaccia improvvisamente, apre voragini interiori, ti porta a pensare. Come hai gestito la colonna sonora?

A.G: avevo due collaboratori, uno lettone e l’altro ucraino (Goran Gora e Serge Synthkey, n.d.R.). Quest’ultimo era al suo primo lavoro in ambito cinematografico; faceva musica elettronica e lavorava soprattutto nelle feste. Entrambe mi piacevano molto, pur essendo compositori alquanto diversi, ma lavorare con tutti e due – soprattutto col lettone – era difficile perché a causa del Coronavirus non mi sono recata in studio e abbiamo dovuto fare tutto online. A volte mi sentivo come una deejay che deve combinare due tracce. L’ultimo pezzo della colonna sonora, per esempio, ha una parte strumentale e una elettronica, che ho dovuto connettere. È stata dura, e penso tuttora che ci sia qualcosa di migliorabile che possa essere aggiustato; non abbiamo bilanciato a sufficienza. Lavorare sulla musica è più facile quando si può andare in studio, perché senza troppe parole puoi mostrare al compositore il tipo di suono di cui hai bisogno.


A.M: D’altro canto un regista potrebbe rimuginare all’infinito sul proprio film e trovare ogni volta qualcosa da cambiare. Permettimi comunque di dire che il tuo film è meraviglioso così com’è.

A.G: grazie. A un certo punto ho deciso di fermarmi a prescindere. Io e miei collaboratori avevamo persino coltivato l’idea di spostare la nostra prima del Festival dei Popoli quando abbiamo capito che si sarebbe svolta online, ma poi abbiamo pensato che fosse ormai giunto il momento del film. Mi dovevo fermare e basta: smettere di montare, di cambiare cose. A volte è difficile fermarsi, penso che la maggior parte dei registi lo sappia e l’abbia vissuto.  



A.M: a proposito di altri registi: secondo i Cahiers du Cinéma il miglior film dell’anno è un documentario di Frederic Wiseman, City Hall. Se non altro per questioni di palmares, il tuo film, appena premiato al Festival dei Popoli, merita a sua volta di essere inserito nel novero dei migliori di quest’annata. Una cosa che è stata riconosciuta unanimemente a This Rain Will Never Stop è il suo aspetto artistico e sperimentale. Essere sperimentali secondo te cosa vuol dire?

A.G: vuol dire uscire dai confini: questo è essere sperimentale. Sperimentale è l’autore che crea il proprio mondo all’interno del cinema con un tocco personale: è quello che fanno i grandi registi. Per trovare il proprio personale mondo, si tirano fuori dal terreno della tradizione ed ampliano i confini del cinema.



A.M: per chiudere l’intervista, parliamo proprio di confini. Anche i “confini” di un personaggio possono cambiare in corso d’opera. Nella prima parte del tuo film, Andriy era più loquace ed esplicito; nella seconda, sei riuscita a riprenderne momenti forse più intimi e genuini: sono diverse le scene di silenzio. Come si è modificato il confine del rapporto personaggio\regista durante le riprese?

A.G: Andriy è diventato sempre più tranquillo. All’inizio era piuttosto nervoso. Alcuni personaggi cercano di creare l’immagine di sé stessi, e questo è successo anche con Andriy. Non è stato facile filmarlo in famiglia, c’era come un confine, per l’appunto, tra di noi. Alla fine, però, è diventato sempre più calmo ed ha smesso di fingere, di farsi passare per un eroe, di mostrarsi come il bravo ragazzo della Croce Rossa. È una persona buona, ma anche molto ordinaria, come siamo noi, come molta altra gente. Ho sbagliato anche io in realtà: anche nella mia testa era un eroe di cui raccontare la storia da sogno. È stato un errore di regia, ma poi ho cambiato direzione. Non è stato facile capire come poter presentare Andriy: non doveva sembrare un qualsiasi video di YouTube o di un’organizzazione non governativa, doveva essere cinema.


A.M: ed è un gran bel cinema. Grazie Alina.

A.G: grazie a te, Antonio.


SCHEDA TECNICA DEL FILM

TITOLO ORIGINALE: This Rain Will Never Stop
PAESE: 
Ucraina, Siria, Germania, Quatar
ANNO: 
2020
GENERE: 
documentario
DURATA: 103'
REGIA: 
Alina Gorlova
SCENEGGIATURA: Alina Gorlova, Maksym Nakonchnyi
CAST: Andriy Suleiman, Arseniy Suleiman, Lazgin Khalil Suleiman, Mezgin Khalil Suleiman, Khoshnav Suleiman, Liudmila Arkhipova, Gulnaz Khalil Suleiman, Yulia Olifirenko, Svitlana Arkhipova
MONTAGGIO: Olha Zhurba, Simon Mozgovyi, Alina Gorlova
FOTOGRAFIA: 
Vyacheslav Tsvetkov
COLONNA SONORA: Goran Gora e Serge Synthkey
PRODUZIONE: 
Tabor Production, in co-produzione con Avantis Promo, Bulldog Agenda


(IMMAGINI: fotogrammi dal film This Rain Will Never Stop, tranne la penultima immagine all'interno, che ritrae la regista Alina Gorlova con fonte OdessaJournal)

Antonio Maiorino


Autore
https://www.infooggi.it - Il Diritto Di Sapere

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