Cronaca
Processo Iblis, Lombardo in aula per ascoltare le lacune di D'Aquino
CATANIA, 29 APRILE 2012 - Lo aveva dichiarato ed ha mantenuto la promessa. Ieri, infatti, il presidente della Regione Raffaele Lombardo – che nei giorni scorsi aveva preso la parola all'Ars, per comunicare la sua vicenda giudiziaria «all'Assemblea ed al popolo siciliano» - si è presentato in aula per partecipare all'udienza del processo che lo vede coinvolto insieme al fratello Angelo, deputato nazionale del Movimento per le Autonomie per i reati di voto di scambio aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa, procedimento aperto all'interno del processo “Iblis”.
È durata cinque ore l'udienza che ha visto sul banco dei testimoni Luigi Cataldo, maresciallo della sezione anticrimine dei carabinieri di Catania e Gaetano D'Aquino, collaboratore di giustizia appartenuto al clan Cappello. Proprio le difficoltà della videoconferenza di quest'ultimo hanno prolungato l'udienza, costringendo infine a rinviare l'audizione al 15 maggio, data in cui è fissata la prossima udienza.
Il maresciallo, che si è occupato delle intercettazioni ambientali e telefoniche relative ad un periodo compreso tra il 2007 ed il 2010 ed entrate poi nel processo “Iblis”, ha confermato che al summit mafioso a cui queste fanno riferimento, tenutosi nel 2008 – anno delle elezioni regionali vinte da Raffaele Lombardo - nella masseria di Ramacca di proprietà del geologo Giovanni Barbagallo hanno partecipato anche tre noti esponenti della mafia: Alfio Stiro, referente di Salvatore Tucio, detto “Turi di l'ova”, condannato in via definitiva per associazione mafiosa; Vincenzo Aiello, capo di Cosa Nostra a Catania e Pasquale Oliva. Barbagallo, poi, è stato più volte fotografato dai carabinieri mentre entrava ed usciva dalla segreteria politica dei fratelli Lombardo.[MORE]
Molto più ampia è stata invece la testimonianza di D'Aquino, durata circa quattro ore. Dopo aver esposto il suo curriculum criminale, che lo ha visto – nel 1992 – passare dal clan Pillera al clan dei Cappello, riconosciuto dalla 'ndrangheta ma non da Cosa Nostra e di cui D'Aquino fu fatto sgarrista «una specie di capo. Un ruolo che poteva essere assegnato solo a chi aveva già commesso un omicidio».
In merito ai suoi rapporti con la politica, il collaboratore ha evidenziato come questa non abbia mai fatto conto su di lui, «arrestato qualche mese dopo aver compiuto diciotto anni e quindi subito interdetto dal voto», ma come lui invece la politica l'abbia usata parecchio. «Lavoravo come sorvegliante per la cooperativa Creattività e il mio capo, Peter Santagati, lamentava sempre che i politici dell'Mpa pretendevano troppi posti di lavoro per far sopravvivere la cooperativa. Spesso poi facevano assumere gente pregiudicata, che non si faceva nemmeno comandare. Erano comu sucasangu diceva lui, scusando l'espressione», ha raccontato ai giudici. Proprio il partito che fa riferimento ai fratelli Lombardo – stando al racconto – lo avrebbe avvicinato per chiedere l'appoggio elettorale a Giovanni Pistorio, candidato alle elezioni politiche del 2006. Nel frattempo, di politica ed elezioni, D'Aquino ne parla anche con Salvatore Vaccalluzzo, «uno dei più famosi usurai di Catania» ucciso poco dopo quell'incontro, il quale «mi dice di aver ricevuto un messaggio sul cellulare con la richiesta di aiuto elettorale da parte di Raffaele Lombardo, o forse di un suo segretario, non ricordo». L'unica cosa che D'Aquino ricorda con certezza di tutta la testimonianza, in realtà, è che con Vaccalluzzo si incontrò prima della partita Catania-Albinoleffe che sancì il ritorno in serie A del club etneo.
I quattro dubbi. La deposizione ha comunque suscitato più di una questione aperta, dati i molti tentennamenti, primo fra tutti proprio la discussione con Vaccalluzzo, che nella prima versione data aveva convinto D'Aquino a votare per l'Mpa e non il contrario, come invece il teste ha detto correggendosi.
Il secondo aspetto su cui il teste è stato punzecchiato dal preparatissimo procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro, riguarda l'essenza stessa del voto di scambio. D'Aquino ha infatti sostenuto di aver speso circa diciotto mila euro per portare voti al già citato Pistorio, senza però avere alcun tornaconto per sé o per la famiglia mafiosa che rappresentava in quel momento.
Interessante poi è stata la questione delle preferenze politiche, a rigor di logica diverse tra il gruppo di cui faceva parte D'Aquino ed il clan dei Santapaola, che all'epoca vedeva uno dei massimi esponenti in Angelo Santapaola – cugino del più famoso Benedetto, detto “Nitto” - che non solo non sosteneva il movimento dei Lombardo, ma il suo voto, secondo quanto ricostruito da D'Aquino, andò a Giuseppe Limoli, deputato regionale del Popolo della Libertà, eletto all'epoca nelle file di Forza Italia.
Ultimo aspetto non molto chiaro è la faccenda degli sms. «È risaputo» - ha commentato il presidente Lombardo fuori dall'aula - «che io inoltro inviti a trasmissioni o comizi con i messaggi, talvolta gli auguri per l'onomastico. Ma di certo non mi metto a chiedere voti ad elettori più o meno grandi con un sms. Forse questi signori avranno ricevuto un messaggino che invio gli ultimi tre giorni ad uno schedario di circa ventimila numeri».
Troppe lacune e troppi dubbi per definire realmente attendibile la testimonianza? Forse. Il 15 maggio, quando D'Aquino sarà nuovamente ascoltato, si spera abbia la memoria meno confusa.
(foto: lettera43.it)
Andrea Intonti